Cosa sta succedendo al Sónar? (spoiler: niente di bello)
Sì, si potrebbe lanciare così la domanda, proprio così, direttamente: che sta succedendo al Sónar? Come mai uno dei festivl di riferimento della “nostra” scena, che per anni è stato (quasi) al di sopra di ogni critica, è finito nell’occhio del ciclone delle denunce pubbliche, dei boicottaggi, delle band che rifiutano di suonarci? Eh. I… The post Cosa sta succedendo al Sónar? (spoiler: niente di bello) appeared first on Soundwall.

Sì, si potrebbe lanciare così la domanda, proprio così, direttamente: che sta succedendo al Sónar? Come mai uno dei festivl di riferimento della “nostra” scena, che per anni è stato (quasi) al di sopra di ogni critica, è finito nell’occhio del ciclone delle denunce pubbliche, dei boicottaggi, delle band che rifiutano di suonarci?
Eh.
I più addentro alla questione sanno quel è il punto: il fatto che la mega-company Superstruct (che possiede da qualche anno il Sónar, così come possiede la Boiler Room, Monegros, Benicassim, il Flow, Field Day, lo Sziget… l’elenco è lunghissimo, controllate pure) sia stata rilevata per quasi un miliardo e mezzo di euro dal fondo di investimento KKR l’anno scorso, fondo che ha uno spiacevole record di investimenti in armi da un lato e in progetti di sviluppo immobiliare a trazione israeliana nei territori illegalmente occupati (vedasi risoluzioni ONU) dall’altro, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Perché già che Superstruct fosse sempre più ubiquo, ingordo e pervasivo lasciava perplessi; ora che il medesimo Superstruct è insufflato e mantenuto da un fondo che non si fa remore etiche (…o se ne fa magari sì, ma di un certo tipo), per più di qualcuno è stata la linea di non ritorno.
(Uno dei volantini della campagna anti Boiler Room; continua sotto)
Ci sono artisti – non grandissimi, non famosissimi, act per cui magari il Sónar sarebbe stata una vetrina – che hanno deciso di uscire volontariamente dalla line up (…il cinico potrebbe chiosare: a vedere i nomi, lo hanno fatto perché così li si nota di più?). Ma in generale fra artisti anche grossi – è successo prima di tutto per il Field Day – sta iniziando a levarsi forte il malcontento e viene richiesto, più o meno esplicitamente, di distanziarsi dal KKR e dal suo abbraccio spiacevole (proprio esplicitamente nel caso del Field Day: con firmatari della petizione come Brian Eno, Ben UFO, Midland, giusto per fare qualche nome).
Insomma, se ne parla sempre di più, di ‘sta faccenda. L’altro ieri ad esempio ha destato moltissimo rumore in Spagna questo articolo. Ieri, è arrivata una risposta (…indiretta?) del Sónar in persona. Questa (scorrete tra spagnolo, catalano, inglese):
Onestamente, uno dei comunicati più vacui, inutili ed imbarazzanti ci sia capitato di leggere negli ultimi tempi. A parte il fatto che già di per sé sembra una di quella risposte che negli anni ’90 davano le candidate a Miss Italia o Miss Mondo (“Voglio la pace nel mondo!”), e basterebbe questo, il fatto che proprio il Sónar e non un festival a caso se ne venga fuori con una press release così safe, così sciapa, così vigliacca nel dire e non dire, è bruttino forte. È sconcertante, come testimonia il tono dei commenti sotto di esso.
Non solo: è una nuova caduta di stile per un festival che tanto è (stato) importante per la parte migliore, più coraggiosa e più sana della nostra scena.
Non la prima.
Già, perché sapete cosa? Un articolo dal titolo “Ma che sta succedendo al Sónar?” volevamo già scriverlo un paio di mesi fa, vedendo le sconfortanti sponsorizzate su Instagram del festival per l’edizione di quest’anno.
Oh sì.
Sconfortanti perché? Perché parevano fatte col perfetto manualino comunicazione-per-la-Gen-Z: immagini di folla giovanissima festante, pucciosa e fotogenica, artisti giovanissimi e fluidissimi in estasi, in generale una patinatura diffusa che era completamente, drammaticamente priva del vero golden standard della comunicazione storica del Sónar, quella che l’ha reso grande: ovvero, l’(auto)ironia. (Auto)ironia sottile, surreale, ambigua, saccente, tutto quello che volete, ma comunque (auto)ironia.
Il Sónar non si era mai presentato in maniera flat come uno scintillante supermercato di emozioni e suggestioni, come dire?, standard e molto banalmente “yeah”. Mai. La scelta di costruire le proprie inserzioni su Instagram come se si fosse un Coachella più sbarazzino diventa o una dichiarazione d’intenti precisa, o una sciatteria senza senso. O entrambe le cose, boh.
Di sicuro, scartando l’ipotesi della sciatteria (“Le inserzioni di Instagram facciamole fare allo stagista ventenne dai, pare sveglio…”, tipo), è stata una scelta fatta o da persone che non hanno minimamente in testa la storia e il DNA originario del festival, o da persone che queste storie e questo DNA li conoscono sì, ma hanno scientemente deciso – o gli è stato militarmente imposto – di puntare su qualcosa di molto più diretto, chiaro, banale, efficace secondo i dettami più basic del marketing-da-festival-musicale. La verità è che se certi reel sponsorizzati del Sónar di quest’anno fossero apparsi quindici o dieci anni fa, sarebbero andati bene, benissimo: ma perché sarebbe stato chiaro che erano delle prese per il culo.
Oggi, purtroppo, è invece praticamente certo che non ci sia invece manco mezzo oncia di ironia.
C’è, semmai, un dichiarato voler inseguire la massimizzazione dell’investimento comunicativo, costi quel che costi, mirando ai target prescelti senza pietà e senza sospette e pericolose deviazioni. Senza cioè sottotesti, senza messaggi obliqui e creativi, senza spinte all’elaborazione anticonformista: solo luccicante confezione, solo omologazione a quello-che-funziona. Zero sostanza riflessiva, zero gusto del dubbio creativo e dell’ambiguità fertile, identitaria e sardonica.
Uno dei segreti del successo duraturo e di culto Sónar, ed è un segreto che si è declinato in primis con la comunicazione, è di aver sempre considerato molto intelligente e particolare il proprio pubblico. Tutto questo si è perso, si sta perdendo
…ecco, avremmo scritto questo.
E stavamo per scriverlo, un paio di mesi fa.
Sì.
Ci eravamo anche confrontati con alcune persone di massima fiducia, innamorate del Sónar tanto quanto noi, e no, non ci avevano preso per pazzi, condividevano i nostri dubbi e i nostri imbarazzi. Ma poi ci eravamo detti: “Ma no, ma magari sbagliamo, magari interpretiamo male noi, o magari interpretiamo bene ma è troppo una critica da vecchio nostalgico patetico e rompicazzo… Nel dubbio, meglio evitare. Aspettiamo. Vediamo”.
Epperò il vuoto pneumatico intellettuale, politico, emotivo dello statement fatto uscire ieri per “rispondere” – virgolette d’obbligo – alla montante campagna di malcontento verso il festival, beh, ci fa invece abbandonare la prudenze: ci fa proprio pensare che alla testa del festival catalano sia cambiato qualcosa, anzi, più di qualcosa, e si sia imboccata la strada della “normalizzazione” subdola e narcotica più efficientista, più banale, più meramente funzionale e capitalista e meno stimolante e culturale: quella che ha paura dei contrasti, dei messaggi complessi, che ha paura di schierarsi (perché così sennò rischia di perdere fasce di clienti), che ha paura di increspare immagini idilliache e monodimensionali di sorrisi&successo perché se lo fai metti mai che vendi qualche biglietto in meno, l’obiettivo infatti è vendere biglietti, non altro.
Uno dei segreti del successo duraturo e di culto Sónar, ed è un segreto che si è declinato in primis con la comunicazione, è di aver sempre considerato molto intelligente e particolare il proprio pubblico: un pubblico che non potevi “gabbare” e sedurre con l’ABC del marketing e della comunicazione, ma che invece potevi provocare, sfidare, far ridere, far riflettere, far dubitare.
Tutto questo si è perso, si sta perdendo.
Purtroppo è così.
Si è perso e si sta perdendo così tanto che si arriva a pensare di poter pubblicare un comunicato proprio poveretto come quello uscito ieri, con l’idea di pararsi contro le polemiche montanti sulla contiguità con Superstruct e KKR.
Non sappiamo cosa stia succedendo al Sónar, o almeno non lo sappiamo del tutto; ma da un po’ di tempo a questo parte, quello che vediamo non ci piace per niente. Che sia colpa o meno di KKR e/o di Superstruct, non ci piace per niente. Perché poi la questione sul ruolo di KKR, anzi, sull’essenza di KKR è una faccenda molto più complessa di quel che sembra a prima vista: è un fondo che possiede tante di quelle cose (un esempio fra mille: fette della nostra rete di telecomunicazioni in Italia), e Superstruct è solo una piccolissima parte di esse, così come non è certo KKR l’unico fondo d’investimento con politiche discutibili e che toccano il drammatico intreccio – drammatico per chi lo sta subendo sulla propria pelle, tra morti crudeli ed indiscriminate, deportazioni, terrorismo, odio indotto, e drammatico perché sta facendo sragionare molta gente “terza” che in teoria dovrebbe essere più neutrale e contribuire a rasserenare gli animi, non ad inasprirli – della questione israelo-palestinese.
…però ecco, diciamo che a Superstruct non hanno proprio il dono magico dell’eloquenza o, al contrario, quel minimo di coda di paglia è un discreto fardello. Il comunicato del Field Day rivaleggia con quello del Sónar in quanto a vaghezza ed inutilità, leggere per credere:
Qui sotto, invece, un comunicato che parla molto chiaro, e non si nasconde (e che ha generato il post del Field Day che avete letto appena qua sopra):
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