Milano avvelena un po’ anche te (e basta una Tallinn per capirlo)

Già da tempo, l’avrete notato no?, le recensioni sono diventate rare, su queste pagine. E non solo su queste pagine a dirla tutta, ma un po’ in tutto il web. Il motivo è molto semplice: vengono lette sempre meno, inutile girarci attorno. Un esempio concreto ed immediato? Quando il sottoscritto aveva “preso il ritmo” nella… The post Milano avvelena un po’ anche te (e basta una Tallinn per capirlo) appeared first on Soundwall.

May 14, 2025 - 09:28
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Milano avvelena un po’ anche te (e basta una Tallinn per capirlo)

Già da tempo, l’avrete notato no?, le recensioni sono diventate rare, su queste pagine. E non solo su queste pagine a dirla tutta, ma un po’ in tutto il web. Il motivo è molto semplice: vengono lette sempre meno, inutile girarci attorno. Un esempio concreto ed immediato? Quando il sottoscritto aveva “preso il ritmo” nella sua carriera di giornalista, ad esempio iniziando la lunga collaborazione con lo storico mensile Mucchio, tra recensioni standard e quelle della sezione che curavo in prima persone sull’elettronica mi capitava di recensire, al mese, tipo tra le trenta e le sessanta release. Al mese, eh. Oggi, volendo anche contare le Premiere – che su Soundwall sono sempre attentamente scelte e selezionate – arrivo a malapena ad un decimo di questa quantità.

Sono contento di questo? No. L’innamorato della musica che è in me vorrebbe ancora spendere tempo ed energie per raccontare di musica bella (e, ogni tanto, raccontarne anche di non bella: le recensioni non possono essere solo positive) e farlo in modo massiccio, sistematico, dando esposizione a più persone possibili. Però davvero l’impressione è sempre più che, se lo fai in questo modo, più che fare un favore a chi ti legge il favore lo fai solo agli artisti che si vedono nominati, ed agli eventuali uffici stampa che per i suddetti artisti lavorano e devono “dimostrare” di ottenere dei risultati tangibili – sotto forma di recensioni pubblicate.

…che poi, “chi ti legge”, o ti dovrebbe leggere: appunto, manco ti legge più. Le recensioni le skippa. Come mai? Il discorso sugli artisti, sui dischi, sulle canzoni non è più delegato in toto ai giornalisti. Perché non sono più i giornalisti gli unici a poter avere un vasto ventaglio di ascolti (grazie ai promo che arrivano dalle label). Oggi il “vasto ventaglio” se lo possono fare tutti, da soli, e tutti sono più interessati al proprio parere che a quello altrui. Il brivido di sentirsi finalmente giornalista di se stessi, tipo.

È giusto? È sbagliato? La discussione potrebbe essere lunga. L’impressione è che ad un certo punto tornerà – per pigrizia, per stanchezza, per chissà cos’altro – la voglia di delegare il lavoro di ascolto&filtro a chi lo fa di professione, senza più sobbarcarselo da soli per sentire appunto il brivido di essere (quasi) “professionisti”. Ma al di là delle impressioni e previsioni mie, che potrebbero essere azzaccate così come sballate,, questa lunga digressione serve a dire una cosa ben specifica, un concetto che vi chiediamo di tenere bene a mente e di non gettare nel cestino.

Ovvero: l’aspetto in cui ancora oggi un giornalista musicale, uno che è serio e che è davvero un “addetto al settore”, non uno che sta a casa e scrive le recensioni ascoltando i dischi sulle piattaforme, ecco, dicevamo, l’aspetto in cui un giornalista musica ha ancora oggi un vantaggio competitivo che lo rende potenzialmente prezioso&utile agli occhi dei lettori è – l’avere una visione d’insieme.

Già. Una visione d’assieme. Non da cameretta, non solipsista, non amabilmente/maniacalmente hobbystica, non ossessivamente verticale.

Una visione d’insieme che sia, soprattutto, costruita frequentando musicisti, frequentando discografici, capendo i meccanismi di mercato, osservandoli dall’interno. E, last but not least, una visione d’assieme costruita pure viaggiando.

(Sì, viaggiare; continua sotto)

Full disclosure: uno dei grandi pregi ed una delle grandi fortune dell’essere giornalista musicale un minimo riconosciuto, oggi, è il fatto che ti invitino a concerti, festival, fiere, Music Week varie ed assortite. Il giornalista musicale pigro e poco professionale pensa solo a scroccare ospitalità e a bere e magnare gratis, dandosi pacche sulle spalle con artisti ed addetti al settore più o meno famosi; quello con ancora un minimo di coscienza, si mette in assetto d’ascolto, assetto d’osservatore, e ragiona. Ragiona tanto. Immagazzina luoghi, incontri, situazioni; e poi cerca di elaborare e processare tutto aumentando il ventaglio d’osservazione, aumentando il raggio di prospettiva.

Dirlo pare banale, questo. O irrilevante. Ma non lo è. No, oggi in realtà non lo è.

Il motivo? La musica in Italia è diventata infatti clamorosamente Milano-centrica, e la narrazione attorno ad essa – sia dei media che dei semplici appassionati e/o fruitori – si è adeguata a tutto ciò.

È tutto tarato sui gusti di Milano: un po’ perché le case discografiche stanno a Milano, un po’ perché gli uffici marketing delle grandi aziende (perché i primi a far guadagnare gli artisti sono ormai le aziende, non i dischi venduti, non gli stream su Spotify) stanno a Milano. O guadagni direttamente facendo le marchette per i brand, o il fatto che tu sia anche solo eleggibile/visibile per fare marchette per i brand ti rende più “autorevole”, più grosso, più prezioso sul mercato. Più “vincente”, agli occhi non solo degli addetti al settore ma – purtroppo – anche agli occhi dei semplici ascoltatori.

Il motivo? La musica in Italia è diventata infatti clamorosamente Milano-centrica, e la narrazione attorno ad essa – sia dei media che dei semplici appassionati e/o fruitori – si è adeguata a tutto ciò.

Questo crea una omologazione in cui invece di apprezzare e addirittura perseguire una polifonia di suoni, tutti – anche gli ascoltatori, appunto – cercano di buttarsi sulla musica che è “vincente” (a Milano la competitività è un’ossessione… e in tanti, per la potenza dell’aura “milanese”, stanno introiettando questo modo di ragionare).

Quindi oggi è vincente l’urban: quel macro-contenitore in cui possiamo infilare rapper, trapper, e rapper/trapper diventati cantanti emo-pop-indie (o cantanti emo-pop-indie che si comportano e vestono come rapper/trapper). L’Italia, dopo aver snobbato per anni unica in Europa le sonorità di matrice black, ora – dopo averle debitamente annacquate col pop nazionalpopolare, ovvio – sembra non poterne fare a meno. Almeno in apparenza.

Il nostro consumo musicale – lo racconta benissimo ad esempio ogni settimana Paolo Madeddu, e visto che il suo è un punto di vista distruttivo e non trionfale non è per nulla sexy, e lo boicottano in tanti – è diventato incredibilmente monotematico: monotematico nei generi musical consumati (vanno solo quelli che “funzionano”), monotematico nella scelta della provenienza degli artisti (quasi assenti gli stranieri, percepiti come distanti e poco rilevanti a prescindere), monotematico nell’ossessione per i numeri e i risultati. Sintetizzando? Il comportamento d’ascolto degli italiani – o diciamo di una troppo grande parte di essi – è diventato lo stesso di quello di un discografico di una major che ha l’obbligo di far quadrare i numeri il più possibile: non cerchi di capire se una cosa ti piace, cerchi di capire se “funziona”, se ascoltandola tu ti sei messo in groppa al cavallo vincente.

Fateci caso: anche fra chi è semplicemente un fan o un mero ascoltatore, e non è insomma il manager o il label man dell’artista, si disserta parecchio di dischi d’oro, di platino, di ingressi nelle classifiche stream, piuttosto che di testi, suoni, scelte artistiche. E questo soprattutto nelle nuove generazioni, quelle appunto cresciute a “pane&Milano”. Basta andare nei forum o nella zona commenti delle pagine Instagram di informazione musicale più popolari e di successo per accorgersene: o c’è la deboscia da fan, con schieramenti da curva pro o contro, e vabbé, o sembra di stare nel consiglio d’amministrazione di una major, in cui valuti quanto un prodotto abbia funzionato e quanto invece stia deludendo come numeri, come impatto sul mercato.

Aiuto.

La musica, in Italia, la si fa ovunque. Ancora adesso. Per fortuna. Il problema però è che ormai la si monetizza solo a Milano, solo con l’imprimatur del “milanesismo”. Kudos a Milano per aver costruito e rafforzato un sistema industriale che funziona: ci mancherebbe. Ma il fatto che solo nella metropoli lombarda le cose sembra possano avere un “compimento” sta milanesizzando/industrializzando anche il modo di rapportarsi con la musica.

Il comportamento d’ascolto degli italiani – o diciamo di una troppo grande parte di essi – è diventato lo stesso di quello di un discografico di una major che ha l’obbligo di far quadrare i numeri il più possibile: non cerchi di capire se una cosa ti piace, cerchi di capire se “funziona”, se ascoltandola tu ti sei messo in groppa al cavallo vincente

Succedeva e succede anche con Londra, per carità, e con Parigi; ma, non si offenda nessuno, Milano non è Londra, né Parigi. Non ne ha la grandezza, non ha la ricchezza culturale e stilistica, non ne ha il tremendismo (che però si sta perdendo, ora che Londra è sempre più una città per ricchi – come del resto sta diventando Milano stessa – mentre Parigi è salvata dal suo ribollente tessuto sociale e dal pungolo forte di Marsiglia e Lione, che sono un po’ le Napoli e Torino della Francia, ma con più cazzimma ed organizzazione nelle scene musicali).

Tutte queste riflessioni non ci sarebbero arrivate così nitide e chiare, ci piace pensare, se non avessimo passato un bellissimo weekend lungo a Tallinn ad inizio aprile, per la Tallinn Music Week. È stato illuminante, ci ha aperto la mente. Appunto: la fortuna di poter viaggiare, per motivazioni professionali.

È stato illuminante e ci ha aperto la mente per più motivi: primo, Milano se la tira da grande città europea, ha un complesso di superiorità ben radicato verso il resto d’Italia in tal senso; ma, guarda un po’, basta finire in una capitale baltica come Tallinn (quindi non il centro del mondo…) per vedere che è possibile stare molto ma molto più davanti come qualità di vita, come qualità ed efficienza dell’amministrazione e dei mezzi pubblici, come gestione degli spazi urbani.

(Una veduta aerea, e solo parziale, della zona Telliskivi; continua sotto)

L’unica cosa che Milano ha meglio di Tallinn è il clima, mediamente parlando; ma su praticamente tutti gli altri aspetti (da quello economico all’innovazione scientifica, da quello sociale a quello di politiche culturali…) le due città sono come minimo in equilibrio, anzi, da visitatore diciamo che la percezione è che a Tallinn si viva molto meglio e molto più civilmente e molto più “modernamente” che a Milano. Oh sì. Poi per carità: se parliamo di musica, le tre major – Universal, Sony, Warner – in Italia sono delle industrie grosse che danno da lavorare a molte persone, pompano fatturati ed immaginari, in Estonia molto meno, ma c’è poco da bearsi di questo primato, visto che comunque l’Estonia intera ha lo stesso numero di abitanti di Milano, e la metà di quello di Roma: un milione e trecentomila.

Per il resto invece, “studiando” la situazione estone per prepararci alla Tallinn Music Week e nel viverla poi appieno, abbiamo visto molte strutture culturali, molte fondazioni, molte associazioni, molte venue interessanti (anche nella techno: ora è un po’ in difficoltà, ma l’HALL è una delle venue più belle ed affascinanti che abbiamo mai visto – tra l’altro incredibilis dictu è stata “cresciuta” da un’italiana, Elena Natale, trapiantata prima a Londra e poi in Estonia). A Milano avremmo visto altrettanto? Mmmmh.

(L’HALL, fotografato da Mart Sepp; continua sotto)

Per dire: a Milano, nella Milano di Sala e non solo di Sala che tanto parla di cultura e di musica, e che usa la musica come volano di commercio, di branding e di marketing, ancora non si è stati in grado di creare un distretto del divertimento cultural-musicale come il Telliskivi tallinniano, un’area piena di club assolutamente de-li-zio-si. E questo non a caso, ma perché l’appetito, anzi, l’ingordigia del capitalismo urbanistico palazzinaro alla milanese non lo permette un “distretto del divertimento” legato alla musica ed all’intrattenimento di qualità: non rende abbastanza, non si può fare, non s’ha da fare. E questa, perdonate, è una scelta politica. Non solo colpa della giunta attuale, per carità, anzi tutt’altro, ma di sicuro chi governa ora ha fatto ben poco per invertire la rotta, preferendo il linguaggio del denaro e dei potentati immobiliari (con cui poi andare alle prime alla Scala). Non basta comparire nel video dei Dogo, o snellire le procedure burocratiche per organizzare concerti, o dare il via libera a multinazionali dell’intrattenimento mainstream per costruire nuovi palasport in periferia.

Arrivando a Tallinn, capisci quanto Milano sia indietro come città, come strutture culturali e civili, come scelte. E arrivando alla Tallinn Music Week, capisci anche che c’è vita oltre all’urban e a ciò-che-funziona, nel mondo della musica, nell’approcciarsi alla musica: a Milano sembra quasi che se non fai indie-pop contemporaneo e non fai rap/trap stradaioli non sei nessuno, sei uno scemo, sei uno sfigato, sei uno che con la musica ci vuole solo perdere tempo, mentre in tre giorni di Tallinn Music Week – e a dirla tutta anche nei tre giorni di Eurosonic, a Groningen, su cui ho avuto modo di scrivere questo – questa sensazione non ce l’hai mai. Mai! …anzi, diciamola tutta: avverti la sensazione opposta, ovvero che se tu fai un certo tipo di musica perché è quella che “funziona” lo sfigato sei tu, non chi sceglie strade più alternative, più personali, più atipiche, più comunque sincere.

Bisogna uscire dalla bolla di Milano e del “milanesismo” – che sta toccando tutta l’Italia, in musica, come spiegavamo – per rendersene conto appieno, per rendersi conto di tutto questo. Attenzione: molti addetti ai lavori nella stessa Milano questo lo sanno, a partire da chi lavora per dare vita ad eventi come la Milano Music Week o Linecheck (siano lodati!), e vorrebbe tanto poter migliorare le cose; ma non trovano sponda né nelle major, che pensano solo al loro tornaconto e a far funzionare sempre più le ricette che funzionano già, né nell’amministrazione, che tolta qualche eccezione continua ad essere molto distratta e molto ignorante per quanto riguarda gli argomenti “musica” e “cultura”, soprattutto quando declinati nell’accezione più contemporanea e viva, moderna, internazionale, cosmopolita, europea. Resterebbero i privati: ma loro, in fondo, o fanno beneficenza per scaricare le tasse, o pensano alla fin fine ai propri profitti.

Bisogna uscire da questa trappola. Una trappola molto “milanese”.

Ecco allora evviva la Sicily Music Conference, che inizia oggi e si dipanerà fino al 17 maggio tra Palermo e Catania, evento tanto piccolo e “artigianale”, evento tanto alle prime armi, ma assolutamente sincero ed autentico e “puro” nel modo in cui viene portato avanti (…e comunque viene portato avanti non per perdere tempo e farsi du’ spaghi fra amici, ma per sviluppare davvero un ecosistema industrial/artigianale della musica in regione). Evviva Medimex, a Taranto, che ogni tanto scivola nell’essere un po’ “ministeriale” in alcuni aspetti per compiacere la classe politica pugliese ma che comunque dimostra che è possibile fare tanto e bene, a livello di business, a livello di consapevolezza, a livello di professionalizzazione, ancora lontano dall’ombra della Madonnina e degli “Ué, figa!”. Evviva alcune politiche ed alcune azioni concrete di regioni come Emilia Romagna e Lazio.

(Un’immagine dalla Sicily Music Conference dell’anno scorso, dove compare anche il sottoscritto; continua sotto)

Ma evviva soprattutto le persone – e alla Tallinn Music Week ne abbiamo incontrate tantissime, anzi, sono state semplicemente la regola – che non si avvicinano alla musica come se si avvicinassero ad una start up da cui estrarre tanto valore in fretta e in poco tempo, ma si avvicinano alla musica per quello che è in primis: una necessità emotiva, un nutrimento dell’anima, un mezzo sì per creare economie attorno all’intrattenimento ed al turismo, perché quello ci vuole, ma farlo in maniera ecosostenibile, e culturalmente significativa.

A Tallinn abbiamo apprezzato non solo il modo di porsi degli operatori locali, ma anche di quelli ungheresi, ucraini, francesi, inglesi, finlandesi (…e di quelli siciliani che intelligentemente stanno facendo molto una cosa, in questo 2025: viaggiare, guardare, imparare): in tutti non c’era l’ansia di prendersi subito una fetta grossa e crassa di fatturati generabili dalla musica, ma la voglia di creare un discorso. Ecco, questa è cultura. Lo è molto più del festeggiare i dischi d’oro, di platino, di diamante, di ‘stocazzo.

Ehi: al posto di tutto questo editorialone accorato, un tempo avremmo speso invece una simile quantità tempo per scrivere almeno quattro, cinque recensioni. Ma appunto: oggi le recensioni, tolte quelle attorno ai dischi “grossi”, che creano discussione e sono baciati dall’hype, chi se le legge? Chi se le fila?

Speriamo allora che almeno questa riflessione ad ampio raggio su quanto la “milanesizzazione” dell’ecosistema musicale italiano sia pericolosa porti qualcuno a farsi delle domande, a porre dei dubbi, ad immaginare delle alternative, a comprendere meglio le potenzialità ma anche le regole intime ed etiche dell’ecosistema-musica. Ne abbiamo bisogno. La musica è una benedizione dell’anima prima di tutto perché è libertà, e perché è ricchezza d’espressione: recintarla tutta in un business plan, più o meno indie, più o meno urban, sul breve funziona, ma sul medio-lungo periodo è come la cultura intensiva: fai un sacco di raccolto all’inizio, ma dopo un po’ il terreno è bruciato.

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