Non puoi essere solo angelo in questo mondo: intervista a Silent Bob e Sick Budd

Intervista a Silent Bob e Sick Budd per il nuovo disco "Angelo Balaclava", un racconto di identità, maschere e interiorità. L'articolo Non puoi essere solo angelo in questo mondo: intervista a Silent Bob e Sick Budd proviene da Boh Magazine.

Apr 8, 2025 - 22:27
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Non puoi essere solo angelo in questo mondo: intervista a Silent Bob e Sick Budd

È uscito da pochi giorni Angelo Balaclava, il quarto disco in carriera di Silent Bob e Sick Budd. L’album arriva due anni dopo Habitat Cielo e segna una nuova fase nel loro percorso, sia sul piano musicale sia personale.

Più maturo, più consapevole, Angelo Balaclava nasce da due anni di lavoro e riflessione, durante i quali i due artisti si sono presi il tempo di rallentare, rimettere a fuoco le priorità e ritrovare stimoli.
Il risultato è un disco denso, visivo, dove la scrittura si fa più fotografica e ogni scelta – dai feat alla copertina – racconta qualcosa, segnando un nuovo capitolo che riflette la crescita del percorso tracciato fino a questo momento. Un lavoro che parla di identità, maschere, fratellanza e interiorità.

Li abbiamo incontrati il giorno prima dell’uscita per farcelo raccontare: buona lettura.

Prima di iniziare:

Il disco uscirà stanotte, ma vorrei partire dall’ultima cosa pubblicata, il vlog. Mi raccontate questo viaggio negli Stati Uniti?

Sick Budd: Inizialmente avevamo l’idea di fare un viaggio a Los Angeles per mixare e masterizzare il disco. Poi effettivamente il disco è stato mixato e masterizzato a Los Angeles, ma noi non ci siamo andati. In quel periodo facevamo fatica a portare a compimento le canzoni, a trovare una linea che ci soddisfacesse, e forse quel viaggio era da sfruttare proprio per ritrovare un po’ di ispirazione.

Eravamo fermi, non si procedeva, e allora ci siamo detti: “Sai che c’è? Anziché andare a mixare il disco, andiamo a New York, Detroit, Chicago… e proviamo a trovare qualcosa”. Nessuno dei due era mai stato negli Stati Uniti, quindi per noi aveva anche una valenza personale. Quello è stato un po’ l’apripista, non tanto per fare musica direttamente lì – anche se ci abbiamo provato – quanto per cercare stimoli, vedere cose nuove, vivere quel mondo da cui nasce tutto il nostro genere musicale. Anche andare in un posto come Detroit, che non è una meta turistica come New York o Chicago, secondo me ha avuto un bel peso culturale.

E cosa avete trovato in questo viaggio?

Sick Budd: Per strada si respira davvero questa cultura. In Italia la cultura hip-hop non ha mai attecchito fino in fondo, o comunque ne è arrivata una versione molto più edulcorata, in cui faccio – personalmente – fatica a ritrovarmi. Lì invece la vivi, la respiri davvero, anche nelle generazioni più vecchie. Ed è proprio questo il fatto: trovarti in uno scenario dove la cultura hip-hop è reale, presente, parte del quotidiano. Per dirti, l’esperienza più incredibile è stata quando siamo andati a Detroit a vedere That Mexican O.T. allo Shelter. È entrato sul palco rappando il freestyle dell’ultima battle di 8 Mile, proprio perché eravamo lì, nello stesso posto. Nessuno se lo aspettava, è stato un momento culturale epico per tutti.

Quello che dicevi prima, che forse qua in Italia c’è una versione un po’ edulcorata di questa cultura, è che in America la vivono come anche espressione della parte sociale sottostante, mentre forse in Italia molte volte ha più una valenza creativa ma non c’è tanto quel collegamento.

Sick Budd: Esatto, è più lifestyle ma non cultura, capito? Manca proprio una parte fondamentale.

Silent Bob: Io mi sono accorto che qua in Italia, molti – anche noi, ragazzi più giovani – siamo cresciuti con un certo tipo di musica e cultura a casa, e poi abbiamo integrato l’hip hop perché ce ne siamo innamorati. Invece di là, sono hip hop nell’attitudine, proprio nel modo di vivere. Magari ascoltano anche il pop a casa, sono le persone più chill del mondo… ma quella roba lì ce l’hanno dentro da sempre, fa parte di loro da quando nascono. Noi lo scegliamo, loro invece ce l’hanno nel sangue. E questa cosa la vedi, la noti, la percepisci subito.

Ma secondo voi in Italia si può arrivare a un punto in cui la cultura hip hop viene vissuta allo stesso modo?

Sick Budd: Personalmente penso che potrebbe essere più presente, ma non lo vedo così probabile, perché manca proprio tutto un pezzo. È arrivata l’ultima parte: dal 2016 in poi c’è stata un’esplosione del genere musicale, ma la cultura hip hop in sé non è mai arrivata davvero, se non in una cerchia molto ristretta. Parliamo di un genere musicale che qui viene proposto in modo diverso, e ci raccontiamo questa storiella del rap come genere più amato dai giovani, ma non è sempre esattamente così. Manca tutto un altro pezzo. Negli Stati Uniti esistono tante correnti, sia sonore che culturali, che funzionano e convivono. Qui invece ci sono due, tre, quattro cose… e basta. Ecco, secondo me culturalmente dovremmo espanderci anche su altri fronti.

Guardando il disco, la prima cosa che mi ha colpito è stata la cover: per la prima volta da Piano B non ci siete tu o voi in copertina e l’estetica è molto brutalista. Da dove nasce questa scelta visiva?

Silent Bob: Io avevo in mente la statua con il balaclava fin dall’inizio. Ricordo che, parlando con il grafico, gli dicevo “la vorrei così, così…” e per spiegarmi meglio gli ho mandato una foto della piazza della zona dove sono cresciuto. Si vede che nella mia testa quella piazza aveva un significato molto più ampio, quasi artistico, rispetto a quello che è in realtà: una piazza normale, con una statua di un angelo. Ma per me, anche a livello personale, era il riferimento giusto. Questa fascinazione per l’estetica brutalista è nata negli ultimi due anni, soprattutto tra me e la mia manager. Ci scambiamo spesso foto, vorremmo anche fare un viaggio in Russia, perché ci piace un sacco quell’immaginario. Era già nell’aria, ci piaceva da tempo, e forse tutte le scelte nei dettagli hanno iniziato a virare in quella direzione. Infatti alla fine è venuta fuori proprio così.

L’idea era quella di avere una statua imponente. L’aggiunta del bambino la rende ancora più d’impatto, mette quasi ansia. Avevamo già fatto le copertine con noi in cover, guardandomi intorno vedevo che anche le altre cover in giro sono quasi sempre la foto del rapper. Quindi, anche per andare controcorrente, abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso. Un lavoro più grafico, che ci ha tolto un sacco di energie e tempo, ma ne è valsa la pena. Anche perché, con la riesplosione dei vinili – che è un formato su cui stiamo andando molto forte – avere a casa una roba del genere ha un certo impatto.

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Un’altra cosa che mi ha colpito della cover è quanto si leghi bene al concept del titolo, che avevi spiegato anche su Instagram: l’angelo, il balaclava… Il titolo ce l’avevi già in mente fin dall’inizio insieme all’immagine della statua o è arrivato dopo?

Silent Bob: Diciamo che il titolo ce l’avevo in testa. All’inizio ne avevo pensato un altro, che andava comunque a parare in quella direzione… ma era più banale, non ci convinceva. Questa del disco per me è stata una fase di crescita, mi sono fermato un anno per capire cosa volevo davvero e per rimettere tante cose in prospettiva.
Mi sentivo diverso dal me di 19 anni che scriveva Piano B, ma allo stesso tempo non volevo perdere il contatto con la mia parte più pura: l’angelo. Come scrivevo anche nel post, Angelo è il mio secondo nome, ed è anche il nome di mio nonno. Rappresenta tutto ciò che per me è la parte più pura. Il nome che ti danno alla nascita è la prima cosa che hai, e per me rappresenta tutte le emozioni più radicate e pure.
Balaclava, invece, è l’altra faccia. Crescendo mi sono reso conto che non puoi essere solo angelo per vivere in questo mondo. In questa società tutti noi indossiamo delle maschere — anche ora, mentre stiamo parlando. Se mi comportassi davvero come il me puro, quello bambino, agli occhi degli altri risulterei un matto. Soprattutto in certi contesti più duri, crearti una maschera, un’armatura, è ciò che ti permette di sopravvivere più che di vivere.

Ascoltando ho avuto la sensazione che, rispetto ai lavori precedenti, tu fossi più risolto. Come un passo avanti rispetto ad Habitat Cielo, dove sembrava che queste cose fossero ancora fresche ma tu stessi cercando di allontanarti.

Silent Bob: Questo disco è il frutto di due anni di lavoro, è un discorso più lungo in cui ho ragionato tanto. Ero partito a cannone, mega ispirato, dopo Habitat Cielo volevo tornare a fare la mia roba rap, bella cruda. Poi forse il mio cervello ha iniziato a dirmi: “Guarda che è troppo, stai dando troppo”. Da quando ho 19 anni non mi sono mai fermato, da quando questa cosa è diventata un lavoro per me. E non avendo troppe possibilità – perché a livello di rap game sono un outsider – ho sempre sentito di dover farmi il culo il triplo. Quindi mi ripetevo: “Devo essere produttivo, devo andare in studio e fare la mia roba”.
Però, parlando a livello personale, prima o poi doveva succedere che mi bloccassi. Che il mio cervello mi dicesse: “Fermati, metti a fuoco tutto quello che hai, sistemalo, risolvilo… e poi potrai raccontarlo meglio”.

I pezzi di Habitat Cielo che sono andati meglio – tipo Grazie a Dio – erano proprio quelli dove certe cose le avevo già risolte. Erano proprio la fine di quel percorso. Quando hai vissuto la sofferenza al 100%, riesci a raccontarne ogni dettaglio. Ma quando lo stai ancora vivendo, magari vieni frainteso, perché stai solo sputando rabbia, senza un occhio critico.
In questo disco ci sono un sacco di momenti in cui mi metto in discussione. Prima era: “Il mondo è una merda e ho ragione io, capito?” Stavolta invece, mentre scrivevo, pensavo: “Ok, ma quando l’ho pensata?”. Nel fondo della mia testa avevo capito quale fosse la soluzione di quel dramma e l’ho raccontato con una visione nuova. Stessi drammi, ma con nuovi punti di vista.

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Quando sei troppo all’interno, vedi troppo da vicino delle emozioni o delle situazioni, è difficile avere un quadro lucido. Magari provare ad allontanarsi ti permette di rielaborarla e di avere anche una percezione più completa, più approfondita, però anche quella parte di spontaneità pura a me ha sempre colpito.

Silent Bob: Infatti con questo disco, più degli altri, abbiamo fatto un sacco di prove, tante tracce scartate. Siamo stati molto più esigenti, poi a un certo punto ho detto: “Basta, adesso ragiono d’impatto”. E le canzoni che abbiamo salvato alla fine sono proprio quelle scritte in meno tempo, venute di getto.
Però ogni barra, ogni beat, ogni argomento è stato preso più con le pinze. Per me doveva tutto scorrere in un certo modo. Rispetto alle altre volte, dove magari c’era anche qualcosa che non quadrava, stavolta c’è molto più lavoro tecnico. Bridge, passaggi musicali interessanti… fanno bene a un pezzo, a un disco. Ma alla fine, quelli che hanno retto erano i più spontanei. Dopo mille prove dicevo: “Vabbè, cambiamo beat, riproviamo da zero”… e veniva fuori così. C’è un mix tra spontaneità, rabbia, ispirazione del momento e tanto lavoro in studio. Prima per me era: beat, scrivo, e come viene viene. In passato magari uscivo dallo studio, sentivo il pezzo una volta e poi non lo riascoltavo più fino all’uscita del disco, tanto erano pezzi miei.
Stavolta invece volevo che ogni traccia fosse qualcosa che avrei potuto ascoltare anche centomila volte, per il mio gusto, però volevo che tutto fosse centrato.

Lavorate insieme da tanti anni, avete fatto tanti dischi insieme. Come avete fatto ad avere dei nuovi stimoli anche per questo disco?

Silent Bob: Secondo me è stata la prima volta in cui ci siamo trovati davvero di fronte a dei problemi. Ci siamo allontanati, io mi sono allontanato. Cercavo di capire cosa non andasse e pensavo che il problema fosse là in un momento mio, di sfogo generale. Mi sono allontanato da tutte quelle cose che nella mia vita erano le stesse da tanti anni. Mi sono allontanato e mi sono sentito completamente perso. Essendo stato così perso da ragazzino, perché non avevo punti di riferimento, ho capito che averli nella mia vita oggi è essenziale. Sick Budd però è sempre stato un punto di riferimento.  Tornare da lui non è stato con la coda tra le gambe, ma con la consapevolezza di dire: “Bro, questa roba per come ce l’ho in testa, per come voglio che venga, solo con te posso farla”. Ed è stato fondamentale. Questo distacco e questo riavvicinamento, secondo me, ci ha dato la spinta. Nella mia testa è sempre stato così: ho bisogno quasi di perdere tutto per capire. Quindi devo sempre mettermi in discussione, fare un sacco di casini e poi alla fine ripararli. Ma quando torni, sei rigenerato. E da lì in poi siamo ripartiti, con più grinta. E lo stiamo facendo insieme meglio di sempre.

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Foto di Andrew LoPiccolo

Nel disco ho avuto la sensazione che non parlassi necessariamente solo di te, ma che ci fossero storie anche di altre persone.

Silent Bob: Siccome tutto il lato più emotivo è stato molto sviscerato in Habitat Cielo, in questo disco mi sono ritrovato a voler raccontare le situazioni attraverso le immagini, con un approccio molto più fotografico. Prendi 11 SETTEMBRE, per esempio: ho cercato di abbinare immagini ed emozioni, e di portarle insieme in praticamente tutto il disco. Quando mi veniva un’immagine così chiara che avrei potuto quasi disegnarla, mi gasava scriverla, metterla giù.
Anche Ti amo ma…, che è un pezzo love, l’ho scritto con questo spirito. Non è una storia che ho vissuto in prima persona, ma ho preso le emozioni che provavo rispetto a quella situazione e le ho trasformate in un discorso visivo. In realtà è la storia di una coppia della mia zona che ho vissuto molto da vicino, essendo amico di entrambi. Sono tutte immagini che nella mia testa ho vividissime e ho cercato di trasmetterle anche agli altri.

In “Solo un nome” dici: “Perdonarla è stata la mia boccata di aria fresca” — secondo me uno dei segnali più forti di una tua risoluzione personale. C’è anche un altro passaggio potente, quando parli del denaro come vero seme del razzismo. Da dove nasce questo pensiero? Che rapporto hai avuto con i soldi e con le disuguaglianze che racconti?

Silent Bob: Ti dirò… a me piacciono le cose belle, e avere più soldi cambia proprio la percezione degli altri. Magari ti compri un giubbotto Louis Vuitton e ti rendi conto che prima, in certi posti, manco ti facevano entrare. Lo vedi da come ti guardano. Non capita solo a me: se magari vado con il mio amico marocchino e con quell’altro mio amico albanese, entriamo dentro al posto, e io ho la faccia che ho, loro la loro… e ti chiudono la porta. Invece già semplicemente entrare con un altro mood facendo capire “Io sono qui per comprare”, tutti hanno un sorriso e uno sguardo diverso.
E lì capisci che il colore della pelle, gli occhi, l’aspetto… non contano più. In certi ambienti basta avere soldi per cancellare tutto il resto. Se arrivi con una bella macchina, un orologio, dei vestiti costosi e ti siedi a un tavolo, la gente ti ascolta solo perché sei vestito in un certo modo. Puoi essere bianco, nero, verde o a pois… ma se sei un pezzo di merda, lo sei comunque. E questa cosa la vedo succedere, continuamente. I soldi ti trasformano nella “persona con i soldi”. Se non li hai, sei “quello con la tuta bucata”, e la gente ti guarda male.

Il denaro crea l’abisso, il vero seme del razzismo
Già vi vedo ben vestiti a parlare di uguaglianza
Per poi incazzarvi se vi ferma un senzatetto
È più una questione di tasca, che una questione di razza Silent Bob, Sick Budd – SOLO UN NOME

Sick Budd: Per confermare quello che dici… il razzismo nasce quando incontri, che ne so, il marocchino povero. È lì che si crea il problema, anche se è difficile da spiegare. Ma se quel marocchino ha i soldi, è vestito bene, improvvisamente cambia tutto. È proprio in quel gap che si vede la differenza: se non hai soldi, vieni etichettato come “maranza” o “marocchino” in modo dispregiativo. Se invece sei lo stesso tipo, con i soldi, spesso il razzismo scompare.

Silent Bob: Vedi, io mi presento per quello che sono. A volte faccio discorsi sconnessi, ma quello che voglio dire lo trovi dentro ai pezzi. Il vero seme del razzismo sono i soldi. Quanti ne hai, o quanti non ne hai. È tutto lì. Alla fine, è già tutto spiegato.

Diciamo che si guarda prima quello, poi se non hai i soldi sei passibile di tutti i pregiudizi. Poi anche il discorso “vi vedo ben vestiti a parlare di uguaglianza” è quello che mi ha colpito di più. Perché molto spesso non si vanno a incarnare realmente gli ideali che si raccontano in giro.

Silent Bob: Sai cosa ho notato? È facile dire questa roba “Siamo tutti fratelli” o “Bisogna fare unità”. Ok, suona bene. Ma poi vedo tante persone che certe cose non le hanno mai vissute. Magari hanno tanti soldi, quindi non rischiano mai di essere giudicate male, non si espongono mai veramente… e poi vivono nel loro attico, senza nessun contatto con quello che è la verità. Io invece, con i miei amici di etnie diverse, ci prendiamo in giro da sempre sugli usi e costumi ed è una cosa accettatissima. Succede anche con persone che becchi per caso a una serata. Ma se hai quel tipo di atteggiamento, quella naturalezza… io mi ci rapporto così da quando sono bambino. La verità è molto più importante di quanto sei bravo a raccontare una storia. Guardarsi negli occhi, davvero… quello basta. Per farsi tutti amici. Per farsi tutti fratelli. Avere una connessione reale, no? E mi sembra che in tante classi sociali questa connessione non ci sia, e se ne parli e basta, per sentito dire.

Sick Budd: Tutti molto bravi a farsi i paladini di un tema attuale, politicamente corretto, ma poi alla fine devi guardare anche quelli che sono i fatti. Sono tutti bravi a fare i paladini, a raccontarsela, ma poi sulle cose effettive… chi è che si è mai mosso nel concreto?

Nel disco, come anche negli altri, ci sono pochi feat, molto dosati, che è una cosa che c’è sempre stata nei vostri dischi. Vorrei approfondire meglio come mai, come sono nati in ciascuno di questi.

Silent Bob: Nel mio caso i featuring sono una roba che mi piace tanto fare. Ma nei miei dischi preferisco ritagliarmi uno spazio mio, per i miei fan. Idealmente, farei solo così: tra artisti ci sentiamo, collaboriamo nei singoli, ma i dischi dovremmo farli tutti da soli. Sarebbe interessante vedere chi riesce davvero a reggere un intero disco da solo. Detto questo, avere dei featuring come quelli che ci sono in questo disco ha un altro senso, capisci? Prendi Guè, per esempio. Quando ho sentito quel beat, sapevo che c’era disponibilità e che eravamo entrambi presi bene… quindi ho pensato: “Cazzo, dobbiamo farlo subito”. Avere un nome del genere per me è anche un coronamento di quello che sono stati gli sbatti di questi anni. E poi, ho fatto un pezzo con Don Joe, Jake La Furia, poi con Guè… capito? Diventa proprio incredibile per me, a 25 anni, avere già collaborato con i Dogo. È una chiusura di un cerchio.

18K, invece, è semplicemente il rapper che apprezzo di più in Italia in questo momento. È uno di quelli che ho ascoltato di più. Lo stesso vale per Jeune Mort: non sono molto fan del rap francese, ma lui mi ha completamente folgorato. La scelta delle produzioni, l’attitudine, i flow… tutto. Collaborare con un artista straniero, per me, è stato qualcosa di nuovo. E mi ha aperto la mente. Sentire due lingue, due tipi di scrittura, due flow che si scontrano… crea qualcosa di unico. Tutti e tre gli artisti che ho coinvolto li ho ascoltati tantissimo in questi due anni di lavoro.

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Come mai inserire anche il remix di Senza brividi all’interno dello stesso disco?

Silent Bob: Questione di tempistiche. Arrivavo un po’ all’ultimo, il disco era quasi chiuso, e ho messo una storia mentre ascoltavo Jeune Mort — anche solo per farlo conoscere alla mia fanbase. Lui mi ha risposto e ho pensato: “Cazzo, è lui. Devo infilarlo in qualche modo”. Così è nata la versione remix. È figlia delle tempistiche, ma mi ha anche aperto un bello stargate su questa cosa: la formula remix molto interessante. In America è super usata, in Italia meno. Però può dare vita per più tempo ad un pezzo. Può farlo riscoprire. E poi avevamo la seconda strofa killer in Senza Brividi. Quindi ho detto: “Teniamo quella”. Mi sono fatto convincere dagli altri che era la scelta migliore, e ci sta. Sono contento.

Sick Budd: Anche perchè non si poteva rinunciare alla sua seconda strofa, perché era troppo bella… E poi, se pensi all’hip hop americano, fino a qualche anno fa era normale chiudere i dischi con un remix di un pezzo forte.

Silent Bob: Esatto. Il poco tempo che avevamo ha dato alla cosa una lettura diversa. All’inizio ero un po’ schivo, però cavolo, è figo sentire una traccia intera e poi risentirla alla fine, con un’aggiunta. Viviamo in un momento in cui tutto nella musica è usa e getta, e fare una scelta del genere può sembrare strana… ma in realtà no. Senza Brividi è un pezzo a cui sono molto legato, e dargli una nuova vita, nuove sfumature… perché no?

Anche perché poi le persone che coinvolgi nei remix, di volta in volta, proprio a livello generale possono dare una lettura personale di un altro tipo. Quindi ampliare quella che era la vision originale.

Silent Bob: Bravo, esatto!

Ultimissima domanda: nel post per l’uscita di Piano B avevi scritto “Un giorno saremo felici.” Oggi come state?

Silent Bob: Oggi io sto di cristo. Vado a mangiarmi del buon pesce dopo, si beve, stasera esce il disco… sto da dio. Diciamo che era un augurio, come 19enne. Però oggi sì, posso dire di sì. Anche tu mi hai trovato più risolto, e mi ci sento più risolto. Mi sento più che altro più grande. Certi dolori, certe mancanze continuano ad esserci, ce ne saranno di nuove, però ho più strumenti per gestirle. E questo è effettivamente l’augurio che mi facevo, no? E tassello dopo tassello ci si avvicina.

Sick Budd: Sono cambiate tante cose da quando è uscito Piano B. Questa cosa è diventata 100% il nostro mestiere. Sai, quel pezzettino lo aggiungi, poi ti sei anche riuscito a confermare. Sai, questo è il quarto disco. Dici: “Mi è andato bene il primo, mi è andato bene il secondo…” Però al quarto dici: “Vabbè, qualcosa di buono l’abbiamo fatto, no?” Cioè, non è stato così un caso. È una conferma. Ci siamo confermati nel corso degli anni e, soprattutto, i fatti parlano.

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