L'”urlo” di dolore di Munch fatto proprio anche dal cinema

All’inizio del XX secolo i pittori iniziarono a riversare sulla tela i loro travagli interiori. Beninteso, era sempre accaduto, forse da quando l’uomo inventò il pennello, ma mai con tali dirompenza e orrore, e mai in modo così esteticamente indecifrabile e quindi affascinante. Da Treccani: «Espressionismo (s.m.): Movimento artistico sviluppatosi in Germania con l’intento di contrapporre alla visione impressionista, un’arte di pura espressione intima, schermo nel quale si proietta la sofferenza della vita interiore». Per questo le opere espressionistiche tendono a presentare forme criptiche, distorte, esasperate. Tra gli urli di dolore più lancinanti vi fu quello, lanciato dalla Norvegia, di Edvard Munch, pittore che in carriera avrebbe dimostrato capacità di travalicare le correnti ma che, appunto, nei primi anni del secolo scorso si affermò come uno dei più autorevoli esponenti del nuovo stile pittorico che dalla terra teutonica era passata per la penisola dello Jutland arrivando su fino in Scandinavia. Munch esercitò una grande influenza sull’arte a lui coeva e successiva, dunque anche sul cinema, a partire da quello espressionista tedesco e nord-europeo. Il mondo interiore era un mondo nel mondo, e la sua “scoperta” in ambito artistico fruttò la nascita di nuovi codici estetici. Ovviamente un forte impulso all’esplorazione di questa dimensione intima lo diede la nascita della psicanalisi grazie agli studi di Sigmund Freud sull’inconscio, sul sogno e sulla sessualità. Opere come L’interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Tre Saggi sulla vita sessuale furono rivoluzionarie e resero il medico e filosofo austriaco una delle figure più influenti del pensiero contemporaneo. Più o meno in quegli stessi primi anni del Novecento si affermò un nuovo medium che in breve sarebbe entrato nel novero delle belle arti: il cinema, che trasse inizialmente legittimità proprio dalla suddetta corrente pittorica espressionista, allora la più stilisticamente considerata (il futurismo era un movimento d’avanguardia e ancora snobbato dalla critica). Fu quasi naturale che settima arte ed espressionismo convergessero, entrando infine in contatto. Uno dei primi generi filmici, se non il primo in assoluto al netto degli esperimenti protocinematografici di Georges Méliès, fu appunto quello espressionista degli anni Venti, che nella tetra e disillusa Repubblica di Weimar, come si chiamava la Germania militarmente sconfitta e geopoliticamente umiliata del Primo Dopoguerra, trovò terreno fertile. Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene e Nosferatu il vampiro (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau furono probabilmente i più luminosi (ovviamente non in senso letterale) esempi del genere, ma anche Fritz Lang contribuì con capolavori come Metropolis (1927) e M-Il mostro di Düsseldorf (1931), suo primo lungometraggio sonoro che un paio d’anni dopo la sua uscita sarebbe stato fortemente osteggiato dall’allora nascente regime nazista insieme ad altre opere del cineasta, il quale per l’avversione subita decise infine di emigrare negli Stati Uniti come molti altri esponenti della cultura tedesca. La stessa avversione nazista toccò a Munch, che nel 1937 fu fatto oggetto, insieme ad altri artisti additati come degenerati, di una mostra finalizzata a mettere in cattiva luce la sua arte. L’attore Max Schreck interpreta il Conte Orlok nel film “Nosferatu il vampiro”. In questa fase primigenia del cinema l’influenza del pittore norvegese, a sua volta formatosi letterariamente con le opere dalla forte vena horror-psicologica dello scrittore statunitense Edgar Allan Poe, era evidente. Molte delle pellicole espressioniste sono oggi considerate afferenti al filone orrorifico, laddove paura, psicologia e forme distorte furono anche le principali cifre stilistiche dell’artista nato in una cittadina a un centinaio di chilometri da Christiania (il vecchio nome di Oslo). Diversi soggetti dei suoi quadri, del resto, lasciavano pochi dubbi: donne vampiro, scheletri, persone con lineamenti deformi, deturpati, alla stregua quasi di ominidi venuti da un’altra dimensione. Tutte testimonianze di una natura psicologica tormentata e di una visione macabra del mondo dovuta anche ai traumi giovanili subiti (la madre e la sorella maggiore dell’artista morirono di tubercolosi quando egli aveva rispettivamente cinque e quattordici anni; suo padre divenne affetto da sindrome maniaco-depressiva e un’altra sua sorella da crisi psichiche). Munch avrebbe poi scritto: «Ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell’umanità: il patrimonio della consunzione e la follia». Appena dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fu Alfred Hitchcock a esplorare cinematograficamente gli anfratti della psiche umana indagando sulla sfera onirica nel suo film Io ti salverò (titolo originale: Spellbound) uscito nell’ottobre 1945. La pellicola con Ingrid Bergman e Gregory Peck fu a tutti gli effetti la prima incentrata sul tema della psicanalisi e sullo stud

Mar 25, 2025 - 22:11
 0
L'”urlo” di dolore di Munch fatto proprio anche dal cinema

All’inizio del XX secolo i pittori iniziarono a riversare sulla tela i loro travagli interiori. Beninteso, era sempre accaduto, forse da quando l’uomo inventò il pennello, ma mai con tali dirompenza e orrore, e mai in modo così esteticamente indecifrabile e quindi affascinante. Da Treccani: «Espressionismo (s.m.): Movimento artistico sviluppatosi in Germania con l’intento di contrapporre alla visione impressionista, un’arte di pura espressione intima, schermo nel quale si proietta la sofferenza della vita interiore». Per questo le opere espressionistiche tendono a presentare forme criptiche, distorte, esasperate. Tra gli urli di dolore più lancinanti vi fu quello, lanciato dalla Norvegia, di Edvard Munch, pittore che in carriera avrebbe dimostrato capacità di travalicare le correnti ma che, appunto, nei primi anni del secolo scorso si affermò come uno dei più autorevoli esponenti del nuovo stile pittorico che dalla terra teutonica era passata per la penisola dello Jutland arrivando su fino in Scandinavia. Munch esercitò una grande influenza sull’arte a lui coeva e successiva, dunque anche sul cinema, a partire da quello espressionista tedesco e nord-europeo.

Il mondo interiore era un mondo nel mondo, e la sua “scoperta” in ambito artistico fruttò la nascita di nuovi codici estetici. Ovviamente un forte impulso all’esplorazione di questa dimensione intima lo diede la nascita della psicanalisi grazie agli studi di Sigmund Freud sull’inconscio, sul sogno e sulla sessualità. Opere come L’interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Tre Saggi sulla vita sessuale furono rivoluzionarie e resero il medico e filosofo austriaco una delle figure più influenti del pensiero contemporaneo.

Più o meno in quegli stessi primi anni del Novecento si affermò un nuovo medium che in breve sarebbe entrato nel novero delle belle arti: il cinema, che trasse inizialmente legittimità proprio dalla suddetta corrente pittorica espressionista, allora la più stilisticamente considerata (il futurismo era un movimento d’avanguardia e ancora snobbato dalla critica). Fu quasi naturale che settima arte ed espressionismo convergessero, entrando infine in contatto. Uno dei primi generi filmici, se non il primo in assoluto al netto degli esperimenti protocinematografici di Georges Méliès, fu appunto quello espressionista degli anni Venti, che nella tetra e disillusa Repubblica di Weimar, come si chiamava la Germania militarmente sconfitta e geopoliticamente umiliata del Primo Dopoguerra, trovò terreno fertile. Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene e Nosferatu il vampiro (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau furono probabilmente i più luminosi (ovviamente non in senso letterale) esempi del genere, ma anche Fritz Lang contribuì con capolavori come Metropolis (1927) e M-Il mostro di Düsseldorf (1931), suo primo lungometraggio sonoro che un paio d’anni dopo la sua uscita sarebbe stato fortemente osteggiato dall’allora nascente regime nazista insieme ad altre opere del cineasta, il quale per l’avversione subita decise infine di emigrare negli Stati Uniti come molti altri esponenti della cultura tedesca. La stessa avversione nazista toccò a Munch, che nel 1937 fu fatto oggetto, insieme ad altri artisti additati come degenerati, di una mostra finalizzata a mettere in cattiva luce la sua arte.

L’attore Max Schreck interpreta il Conte Orlok nel film “Nosferatu il vampiro”.

In questa fase primigenia del cinema l’influenza del pittore norvegese, a sua volta formatosi letterariamente con le opere dalla forte vena horror-psicologica dello scrittore statunitense Edgar Allan Poe, era evidente. Molte delle pellicole espressioniste sono oggi considerate afferenti al filone orrorifico, laddove paura, psicologia e forme distorte furono anche le principali cifre stilistiche dell’artista nato in una cittadina a un centinaio di chilometri da Christiania (il vecchio nome di Oslo). Diversi soggetti dei suoi quadri, del resto, lasciavano pochi dubbi: donne vampiro, scheletri, persone con lineamenti deformi, deturpati, alla stregua quasi di ominidi venuti da un’altra dimensione. Tutte testimonianze di una natura psicologica tormentata e di una visione macabra del mondo dovuta anche ai traumi giovanili subiti (la madre e la sorella maggiore dell’artista morirono di tubercolosi quando egli aveva rispettivamente cinque e quattordici anni; suo padre divenne affetto da sindrome maniaco-depressiva e un’altra sua sorella da crisi psichiche). Munch avrebbe poi scritto: «Ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell’umanità: il patrimonio della consunzione e la follia».

Appena dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fu Alfred Hitchcock a esplorare cinematograficamente gli anfratti della psiche umana indagando sulla sfera onirica nel suo film Io ti salverò (titolo originale: Spellbound) uscito nell’ottobre 1945. La pellicola con Ingrid Bergman e Gregory Peck fu a tutti gli effetti la prima incentrata sul tema della psicanalisi e sullo studio della mente umana. Tratta dal romanzo The house of Dr. Edwardes di Francis Beeding fu definita dallo stesso regista «una caccia all’uomo in un involucro di pseudo-psicologia» e per le sequenze oniriche si avvalse nientemeno che delle creazioni grafiche dall’artista catalano Salvador Dalì. Thriller e psicologia furono del resto ben rappresentati da Munch in dipinti come La morte al timone (1895), in cui sulla prua della barca del pescatore in primo piano siede una carcassa d’uomo a rappresentare la morte, oppure Vampiro, opera anch’essa presentata nel 1895 e nota pure come Amore e dolore in cui una donna è ritratta seduta nell’atto di consolare, ma più probabilmente, come induce a pensare il titolo, di mordere sul collo, un uomo accovacciato sulle sue gambe. Per non parlare ovviamente del famosissimo L’urlo (1893), titolo dato a una serie di dipinti e incisioni vertenti su un’immagine divenuta vera e propria icona pop. Dai rivolti ovviamente autobiografici, essa rappresenta in primo piano, sullo sfondo di un panorama “frullato” e quasi apocalittico, un soggetto ectoplasmico terrorizzato e urlante, appunto, che per emettere il suo grido si comprime la testa con le mani, diventando quasi preda del suo stesso sentimento. L’uomo ha fattezze e lineamenti guastati, serpentiformi, non sembra umano bensì la proiezione della sua stessa angoscia, che è un simbolo della paura e del dolore collettivi, universali.

Il dipinto di Edvard Munch “La morte al timone” (1893).

Arrivò poi un altro Bergman, Ingmar, regista svedese omonimo ma non parente della succitata attrice, a rappresentare i meandri della mente sul grande schermo. Il cinema di Bergman è notoriamente un cinema dai forti risvolti psicologici. Ne Il posto delle fragole (1954) il protagonista, un anziano professore di medicina, compie un viaggio reale e metafisico ritrovandosi immerso nella proiezione mentale del suo passato, rivivendone ombre e fallimenti, e tracciando infine un amaro bilancio della sua vita. Il suo debito stilistico con i classici e segnatamente con lo stesso genere espressionista degli anni Venti, Bergman lo saldò facendo interpretare il professore a un gigante del cinema svedese, Victor Sjostrom, che nel 1921 aveva diretto e interpretato un’altra pietra miliare dell’espressionismo, Il carretto fantasma, dove ancora una volta l’orrore, rappresentato a mezzo di contrasti di luce, angolazioni anonime e sovraimpressioni, richiamava proiezioni della mente come avveniva nei dipinti di Munch. L’impossibilità di comprendere l’ignoto rappresentato dal post-vita è un topos bergman-iano come testimonia anche la più emblematica tra le scene del cineasta, quella, celeberrima, della partita a scacchi del protagonista Max von Sydow con la Morte in persona ne Il settimo sigillo (1957). Ma è tutta l’opera di Bergman, un’opera come detto dai risvolti spesso introspettivi e macabri, a rifarsi in parte a Munch. In certe placide e assolate, ancorché solitarie, rive marine svedesi che fungono spesso da scenari nei suoi film come per esempio nel succitato Il settimo sigillo, Come in uno specchio e Persona, riecheggia la desolazione scandinava di certi dipinti “litorali” del norvegese come Sera. Malinconia, Disperazione, Paesaggio marino, Spiaggia del Nord e L’urlo stesso (che in realtà è ambientato in un paesaggio collinare da molti spesso confuso con uno marittimo). Anche il tradimento è un tema su cui l’opera di Bergman e quella di Munch trovano terreno comune: il primo affrontandolo per esempio in Fanny e Alexander e L’infedele, film da lui scritto per la regia di Liv Ullmann; il secondo dipingendolo nel suo celebre ciclo Gelosia, composto nell’arco di una vita e arrivato a contare ben undici versioni del medesimo soggetto.

Dagli anni ’60 il tema psicologico iniziò a essere sempre più presente nella letteratura e nel cinema, motivo per cui l’eredità di Munch venne via via a diluirsi nell’insieme di mille altri riferimenti. Ormai non si poteva più parlare di influenza diretta dell’artista, anche se qualche credito gli andava comunque riconosciuto, né in tema di Nouvelle Vague né di Hollywood, dove il filone nacque probabilmente con il capolavoro di Roman Polanski Rosemary’s baby. Più avanti nel tempo, nemmeno la filmografia di un maestro del thriller psicologico come David Lynch sarebbe potuta essere direttamente ricondotta a Munch.

Tuttavia, un regista che tornò a rendere manifesto omaggio all’artista, in parte sull’onda mediatica del famoso primo furto subito da L’urlo alla Galleria nazionale di Oslo nel 1994, fu Wes Craven, per il quale la commistione tra horror e psicologia fu cifra dell’intera carriera. La maschera di Ghostface, il serial killer protagonista della sua serie di film Scream, il primo dei quali uscito al cinema nel 1996, era dichiaratamente ispirata al summenzionato soggetto gridante del quadro, anche se il tema dell’orrore come intimo frutto del mondo dei sogni era già stato compiutamente affrontato dal cineasta in Nightmare. Un incubo era stata del resto la vita per Munch, il quale dopo aver convissuto per buona parte della sua vita con i propri demoni interiori, negli ultimi anni della sua esistenza, trascorsi nella sua proprietà nei pressi di Oslo, dovette convivere con la paura che il regime nazista, che nel 1940 aveva invaso la Norvegia, potesse sequestrare tutte le sue opere. L’artista non avrebbe fatto in tempo ad assistere alla sconfitta di Hitler e alla conseguente liberazione del suo paese, e in questo senso la sua morte, avvenuta nel 1943, fu l’ennesimo brutto tiro riservatogli dal destino.

Il serial killer Ghostface nella serie cinematografica “Scream”.

In ultimo, a chiudere queste poche righe di retrospettiva sul legame tra Munch e cinema, si segnala l’ottimo docufilm Munch. Amori, fantasmi e donne vampiro, uscito nel 2022. Il lungometraggio getta nuova luce sul pittore, un uomo dal fascino profondo e misterioso, un precursore e un maestro per tutti coloro che vennero dopo di lui. Allo stesso tempo, è anche un viaggio attraverso la Norvegia, alla ricerca delle radici e dell’identità di un artista universale.

L’articolo L'"urlo" di dolore di Munch fatto proprio anche dal cinema proviene da sentireascoltare.com.