Ettore Zapparoli, il solitario poeta del Monte Rosa
Personaggio eclettico e romantico, legò la sua vita alpinistica alla parete Est del Rosa. Che gli fu fatale. Il memorabile necrologio scritto da Dino Buzzati L'articolo Ettore Zapparoli, il solitario poeta del Monte Rosa proviene da Montagna.TV.


Musicista, poeta, alpinista. In quale ordine elencare queste tre anime di Ettore Zapparoli? Difficile dirlo, perché tutte e tre lo rappresentano, eppure nessuna riesce a contenerlo davvero. Forse perché Zapparoli ha sempre camminato in silenzio, lontano dai riflettori. Nell’alpinismo non occupa un posto d’onore nel pantheon ufficiale, e nei mondi della musica e della letteratura il suo nome è quasi dimenticato. Ma lui è stato tutto questo, in modo autentico e profondo, solo sempre un po’ fuori tempo….
Nacque e visse in pianura Zapparoli, ma per errore. Mantova lo mise al mondo nel 1899 e Milano divenne la sua città d’adozione. Il suo sguardo, i suoi pensieri e la sua azione, però, furono sempre rivolti alle montagne, in particolare al Monte Rosa, la cui parete est, nelle giornate più limpide, si staglia sull’orizzonte della metropoli meneghina come un’immensa vela bianca. Lasciandosi ispirare da lei ha scritto romanzi (Blu Nord e Il silenzio ha le mani aperte) sottesi da un’ostinata weltanschauung romantica, quando ormai il rombo della macchina e lo “Zang Tumb Tumb” di Marinetti urlavano troppo forte perché qualcuno potesse riuscire a sentire il fruscio delle sue brezze d’alta quota…
Ha cercato sui tasti del pianoforte le armonie di una classicità ormai superata, quando la dodecafonia svelava i segreti delle dissonanze musicali, e si è innamorato di un alpinismo altrettanto classico, fatto di creste, canaloni e pendii immacolati di neve, proprio mentre l’epoca d’oro del VI grado si dispiegava in tutta la sua gloria sulle pareti verticali e strapiombanti.
Zapparoli amava il versante est del Rosa, quello che incombe maestoso su Macugnaga, un mondo di ghiacci in continua mutazione, una piccola Himalaya alpina.
Qui, proprio come il viandante romantico di Friedrich sul mare di nebbia, vagava spesso senza meta, a volte vestendo i panni dell’alpinista, per risolvere in completa solitudine certi “ultimi problemi” di cui, forse, ormai solo a lui importava. Non era la difficoltà o il limite estremo ciò che inseguiva, ma l’eleganza sfuggente di linee dove i passaggi si concatenavano come le note sul rigo musicale. Così fu nel 1937, quando salì la Cresta del Poeta alla Nordend, dedicata all’amico Guido Rey. O nel settembre del 1948, quando aprì la via attraverso il Canalone della Solitudine, in condizioni tanto estreme da far dubitare sulla verità dell’impresa: niente foto, nessun testimone, solo la parola di un uomo.
Proprio sul Rosa, nel 1951, si incamminò per la sua ultima ascensione, deciso a risolvere il problema della via diretta alla punta Zumstein, forse il più estetico degli itinerari della parete, di sicuro il più folle, esposto com’è alle slavine. Per l’ennesima volta era fuori tempo Zapparoli: cosa ci andava a fare lassù quel gentiluomo cinquantenne? Così almeno la pensavano gli amici, che, stando alle testimonianze, riuscì a fatica a convincere affinché gli prestassero un paio di ramponi…
Non ne fece più ritorno. Il suo corpo verrà ritrovato solo nel 2007, ai piedi della parete, da un’escursionista. Un mistero svelato, che probabilmente lui avrebbe preferito rimanesse avvolto dalla nebbia romantica di Friedrich. Forse Zapparoli, quello vero, più che in quei poveri resti, lo troviamo nelle righe che Dino Buzzati gli dedicò nel necrologio scritto per il Corriere della Sera, ricordandolo mentre “parte per l’eternità”, proprio come il suo tenente Giovanni Drogo, il protagonista de Il deserto dei tartari, sconfitto dal tempo e dalla vita, ma con l’immensa dignità e il sorriso sul volto di chi ha dedicato ogni istante per farsi trovare pronto all’ultima battaglia: “Zapparoli, Zapparoli! Noi gridiamo, facendo portavoce delle mani, ai ghiacciai che non rispondono; Zapparoli, perché non torni? Ma in fondo, non siamo degli ipocriti? Che avremmo da offrirgli, se tornasse? Così invece egli è rimasto intatto, preservato nella sua sagoma di arcangelo, tratto via in una specie di trionfo, mentre il vento, le pietre, le nevi, le acque, i ghiacci suonano le sinfonie che egli avrebbe voluto scrivere. E io lo vedo ancora là, che manovra con la picca, tremendamente sprovveduto”.
Alla figura di Zapparoli è stato dedicato un solo libro, scritto nel 1996 da Eugenio Pesci , ormai quasi introvabile, ma fondamentale per conoscerlo in tutti i suoi aspetti umani e alpinistici. Il titolo? Solitudine sulla Est. Una sintesi perfetta.
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