C’è un motivo se i crime britannici ci sembrano più “veri”
Una cicatrice spessa e profonda ci è rimasta nel cuore dopo la visione di Adolescence e non sarebbe la prima volta che una serie tv crime britannica riesce a ferirci così in profondità. Prima di Adolescence, era già successo con Baby Reindeer e, ancor prima, con Broadchurch. Entrambi prodotti che ci hanno eloquentemente coinvolti sia… Leggi di più »C’è un motivo se i crime britannici ci sembrano più “veri” The post C’è un motivo se i crime britannici ci sembrano più “veri” appeared first on Hall of Series.

Una cicatrice spessa e profonda ci è rimasta nel cuore dopo la visione di Adolescence e non sarebbe la prima volta che una serie tv crime britannica riesce a ferirci così in profondità.
Prima di Adolescence, era già successo con Baby Reindeer e, ancor prima, con Broadchurch. Entrambi prodotti che ci hanno eloquentemente coinvolti sia mentalmente che emotivamente, portandoci ad affrontare noi stessi e il mondo che ci circonda. Lo ha fatto, seppur non rientri propriamente nel genere crime, anche Black Mirror. La serie tv antologica, paladina delle produzioni britanniche, sprofonda, e noi con lei, negli abissi dell’animo umano sfruttando la tecnologia come occhio orwelliano che tutto vede.
Eppure bisogna ricordare che il “crime” britannico non nasce in televisione, ma affonda le sue radici nella letteratura vittoriana. Nel XIX secolo, l’Inghilterra viveva un boom industriale, un’esplosione urbana che portava con sé anche un aumento della criminalità, reale e percepita. La paura del “crimine invisibile” era ovunque, e la narrativa criminale divenne una lente per esplorare le ansie sociali. Wilkie Collins prima, con The Moonstone (1868), e poco dopo Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes (dal 1887) stabilirono alcuni dei pilastri del genere. Fu poi Agatha Christie (dai primi anni ’20) a rendere il crime un gioco intellettuale. Alcune delle sue storie, come Assassinio sull’Orient Express e Dieci piccoli indiani, trasformarono il delitto in un elegante puzzle sociale, rompendo persino alcune regole imposte dai suoi precedenti colleghi.
Negli anni Sessanta e Settanta, il crime britannico attraversa una trasformazione radicale, abbandonando il garbo formale dei gialli tradizionali per abbracciare una narrazione più cruda, diretta, profondamente legata alla realtà sociale del tempo. La Gran Bretagna stava cambiando rapidamente. Il boom economico del dopoguerra si era affievolito, le città industriali del Nord cadevano in declino, mentre nuove tensioni sociali — razziali, di classe, generazionali — esplodevano ovunque. La criminalità urbana aumentava, così come la diffidenza verso le istituzioni. Il bisogno di questi anni diventa quello di fotografare la realtà, scevra da infiocchettamenti ed eleganti detective. A dominare la nuova estetica dei crime britannici sono i quartieri popolari, i pub sudici e le strade malfamate.
Il crimine non un’eccezione, ma una conseguenza inevitabile del degrado urbano, della disoccupazione, delle tensioni irrisolte.
Salto in avanti di un paio di decenni. Al pubblico non basta più sapere chi ha compiuto il crimine, ma comprenderne il movente. Sono gli anni Novanta, il crimine aumenta nella percezione pubblica, alimentato dalla stampa sensazionalistica e da nuove ansie collettive. Adesso al degrado si aggiungono i traumi, le frustrazioni personali e un ammasso contorto di emozioni che devono necessariamente essere sbrogliate. Con l’inizio del nuovo millennio, il crime britannico raggiunge una nuova maturità stilistica e narrativa. Le produzioni aumentano di qualità: migliori sceneggiature, regie più ambiziose, fotografia cinematografica.
Il genere si impone come forma d’arte in sé, distinguendosi, ancora oggi e in maniera evidente, dal filone del cugino oltreoceano.

Al termine di Adolescence, le sensazioni sono diverse, alcune in contrasto tra loro. Rimaniamo turbati, delusi, insoddisfatti, feriti e scioccati da questo racconto. Fittizio sulla carta, ma che in fondo è quanto più reale possibile. Perché la storia di Jamie Miller (il talento emergente Owen Cooper) inizia senza alcun preambolo, entrando repentinamente nella vita di una famiglia inglese e sconvolgendola per sempre. Bastano appena i primi dieci minuti di Adolescence per risvegliarci dal torpore emotivo in cui siamo, ormai, perennemente immersi. Dieci minuti durante i quali un ragazzino di 13 anni viene prelevato dal suo letto e preso in custodia con l’accusa di omicidio. Non è una storia vera, ma fa altrettanta paura perché potrebbe benissimo esserlo.
Il realismo di ambientazioni e personaggi
Un primo essenziale punto che rende le serie tv crime inglese, come Adolescence (disponibile sul catalogo Netflix qui),, molto più vicine alla nostra realtà è l’ambiente. Le storie hanno luogo in cittadine di provincia, in quartieri con case normali, cielo grigio, pioggia. Una caratteristica presente anche in altri generi, come il teen drama (pensate per esempio a Skins o a Misfits). Non c’è quasi mai il glamour dei grattacieli di New York o delle ville sulla spiaggia di Malibu. Siamo di fronte alla “vita vera”, nel suo monotono ripetersi di momenti: andare a scuola, fare la spesa, recarsi in chiesa e infiniti altre situazioni di assoluta normalità. Ed è proprio in virtù di quella normalità che, quando il crimine avviene, si percepisce maggiormente un senso di rottura. La quiete è stata spezzata e non c’è modo di tornare indietro.
Le giornate non saranno mai più le stesse, i momenti sono irrimediabilmente corrotti da un unico e tragico avvenimento che condiziona tutto il resto. Adolescence fa proprio questo, senza neanche il bisogno di mostrare l’evento cruento in sé. O meglio lo mostra, ma attraverso l’occhio asettico di una telecamera di sorveglianza. Una scena che dura appena una manciata di minuti.
Perché il focus di Adolescence non è il prima, bensì il dopo.
Seconda ed evidentissima differenza tra le serie crime di stampo britannico rispetto a quelle americane riguarda gli attori e i loro personaggi. Gli attori britannici, molti dei quali hanno una formazione teatrale solida, tendono a interpretare i loro ruoli in modo naturale, senza eccessi melodrammatici o manierismi. La loro recitazione è misurata, credibile, quasi “sottovoce” rispetto al tono spesso più enfatico che troviamo in altre produzioni. Non cercano di stupire lo spettatore a ogni battuta. Si limitano a essere il personaggio
I protagonisti sono persone ordinarie, operai o professori, agenti di polizia o artisti in cerca di rivalsa. Ed è tutto assolutamente credibile perché gli stessi interpreti, esclusi alcuni nomi in particolare, hanno facce assolutamente comuni. Siamo lontani dai canoni estetici hollywoodiani, dai denti perfettamente dritti e dagli zigomi cesellati. La bellezza britannica esiste, lo sappiamo bene, ma è sporca, cruda, insomma vera. Una verità che si riversa negli sguardi e nei gesti, tanto limitati quanto intensi. Guardandoli, vediamo un po’ noi stessi e ci scopriamo davvero a identificarci e sentirci parte della storia. Come di rado avviene, invece, nei crime americani.
Uno specchio oscuro sulla società
Infine, nei crime britannici il delitto non è quasi mai un evento isolato, né una questione puramente individuale. Piuttosto, è la punta di un iceberg, il sintomo di un disagio più ampio che attraversa la società. La domanda, lo abbiamo già detto, non riguarda quasi mai il chi o il come, piuttosto il perché.
Il risultato è che il delitto spesso diventa una lente attraverso cui osservare temi sociali complessi. Lo era la salute mentale in Baby Reindeer, lo è adesso la mascolinità tossica in Adolescence. Temi macroscopici che si intrecciano ad altre come lo stalking, il bullismo, la manosfera. Fungono da motore nascosto dell’evento, parlando direttamente allo spettatore. Lo vedi? Questo è il mondo che ti circonda, faresti bene ad averne paura. Il delitto non è fine a se stesso, non si tratta, quasi in nessun caso, del “semplice” (passateci il termine) delitto passionale, della sete di denaro o di altre azioni deplorevoli che rimangono nella sfera strettamente personale.
Pensiamo, per rimanere in tempi recentissimi, a Disclaimer o Presunto Innocente. Entrambi thriller magistrali, ma che in fondo raccontano le storie di singoli individui. Tra l’altro individui interpretati da Jake Gyllenhaal e Cate Blanchett, volti con i quali non è esattamente immediato immedesimarsi mentre siamo sul divano con la copertina e le patatine.
Interessante è anche il tipo di empatia che i crime britannici instaurano. Non si chiede allo spettatore di giustificare il crimine, ma di capire le condizioni che possono portare ai gesti estremi. Il che non significa necessariamente perdonare gli assassini, ma riconoscere che il male non nasce nel vuoto: è spesso alimentato da ingiustizie sistemiche, traumi irrisolti, abbandoni istituzionali. Il crime britannico non offre una via di fuga dalla realtà, ma anzi ci riporta dentro la realtà con una forza disarmante.
È uno specchio oscuro, ma estremamente umano. Ed è proprio questa umanità — fragile, imperfetta, a volte disperata — che ce lo fa sembrare così autentico.
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