Enrico Ruggeri: “A Londra ho imparato a vivere”

Ci voleva un rocker-filosofo, giramondo ma ben ancorato a Milano, la sua città, per riuscire a trasformare un’allegoria primordiale in metafora della modernità: è quel che riesce a fare Enrico Ruggeri con La caverna di Platone, l’album n° 40 della sua carriera, che presenta in due concerti speciali l’1 aprile ai Magazzini Generali di Milano e il 3 L'articolo Enrico Ruggeri: “A Londra ho imparato a vivere” sembra essere il primo su Dove Viaggi.

Apr 9, 2025 - 15:54
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Enrico Ruggeri: “A Londra ho imparato a vivere”

Ci voleva un rocker-filosofo, giramondo ma ben ancorato a Milano, la sua città, per riuscire a trasformare un’allegoria primordiale in metafora della modernità: è quel che riesce a fare Enrico Ruggeri con La caverna di Platone, l’album n° 40 della sua carriera, che presenta in due concerti speciali l’1 aprile ai Magazzini Generali di Milano e il 3 aprile al Largo Venue di Roma. Con lui si parte per un viaggio di rara eleganza, tra i suoni di una realtà sfuggente come la nebbia padana e crudele come le guerre, che ancora tormentano questi giorni, di nuovo bui.

enrico ruggeri
La copertina del nuovo album di Enrico Ruggeri, “La caverna di Platone”

Il suo non è solo un album, ma una dichiarazione di resistenza: alle illusioni, alla brutalità e alla violenza spietata. A cui, a 67 anni e 50 di carriera, risponde con poesia, buona musica e quella voce così intensa che gli ha fatto vincere due festival di Sanremo (nel 1987 con Si può dare di più e nel ’93 con Mistero) e vendere più di 4 milioni di dischi. Cantante, conduttore televisivo (Gli occhi del musicista su Rai 2) e scrittore (ultimo libro uscito, 40 vite (senza fermarmi mai) per La Nave di Teseo), porta in dote anche Benvenuto chi passa da qui, brano firmato dal figlio Pico Rama e cantato per la prima volta insieme: «un piccolo vademecum per l’avvicinamento alla felicità».

E mentre sogna una tournée in Argentina («Mi affascina questa terra immensa del tango, piena di italiani perfettamente integrati»), ha smesso di frequentare i locali notturni e preferisce fare le ore piccole aspettando che gli altri due figli adolescenti tornino a casa.

È vero che lei non ama viaggiare?
«Cerco di viaggiare per lavoro e infatti un po’ di mondo l’ho visto facendo più di 3 mila concerti: in Australia, per esempio, ero in tour nel ’93, poi ho suonato in Brasile e anche molto nell’ex Unione Sovietica. Nell’inverno del ’90, a meno 34 gradi di temperatura, sono stato a Mosca, Zagorsk e Krasnogorsk, grandi città a qualche ora dalla capitale. Perché se negli anni Ottanta i russi andavano pazzi per i cantanti italiani più melodici, nel decennio successivo imparavano addirittura l’italiano per capire meglio le mie canzoni. E c’erano associazioni culturali che organizzavano eventi dedicati alla musica d’autore e mi accoglievano con grande affetto».

C’è stato un viaggio che le ha cambiato la vita?
«Da ragazzo, appena mettevo da parte quattro soldi, partivo per Londra. La prima volta avevo 17 anni e ci siamo andati con una Renault 4, un viaggio infinito e scomodo. Dovevamo partire perché là c’era fermento, c’erano i concerti che sognavamo e negozi dove compravamo gli amplificatori Marshall che in Italia non si trovavano. Dormivamo dove capitava, ma almeno imparavamo a vivere, a muoverci, a stare sul palco».

È lì che ha capito che avrebbe potuto farcela davvero?
«La musica che c’era prima del punk si chiamava progressive ed era complicatissima: sentivi gente, come gli Yes, i Genesis, gli Emerson, Lake & Palmer, che aveva fatto il conservatorio e suonava da paura. Quindi la mia generazione pensava che non avrebbe mai raggiunto quei livelli. Poi andavi a Londra e incrociavi i Clash e i Sex Pistols che suonavano come noi, per dire, ma avevano una rabbia, una linea editoriale e una sicurezza incredibili. Quindi, non essendoci Internet, noi avevamo il vantaggio che, avendoli visti prima di tutti gli altri dal vivo, tornavamo a Milano e sul palco ci muovevamo come loro, camminavamo come loro, sfoggiavamo la stessa arroganza. Anche nelle interviste».


Tanto che al primo concerto a Milano con i Decibel neanche vi siete presentati. Ci ricorda com’è andata?
«Mi sono ispirato ai Sex Pistols che durante il primo giubileo di Elisabetta II, nel 1977, hanno affittato un barcone e da lì hanno attaccato la regina. Così, ho pensato di organizzare un finto concerto dei Decibel alla discoteca Piccola Broadway in via Redi, angolo corso Buenos Aires: location scelta solo perché proprio di fronte abitava un amico con un grande terrazzo da cui ci saremmo poi goduti lo spettacolo. Visto che all’epoca si vedeva tutto sempre in chiave politica, e qualcuno considerava erroneamente il punk di destra, la notte prima avevamo attaccato i manifesti dello show davanti ai centri sociali, in modo provocatorio».

E poi che cosa è successo?
«Il 4 ottobre 1977 sono arrivati trecento ragazzi punk e il corteo di Avanguardia Operaia e hanno cominciato a menarsi. Così, mentre noi guardavamo tutto dal terrazzo, abbiamo visto intervenire la polizia. Risultato: il giorno dopo sul Corriere della Sera hanno scritto “scontri al concerto dei Decibel” e da quel momento le case discografiche sono venute a cercarci. A dicembre registravamo il nostro primo disco».

Però, alla fine, i punk le hanno prese…
«Ciò nonostante non ci hanno messo nel loro libro nero finché non ci siamo presentati al Festival di Sanremo con Contessa. Lì sono venuti a scriverci “traditori” sotto casa, perché eravamo “entrati nel sistema”. Però avevo ragione io, perché due anni dopo ha partecipato anche Vasco Rossi e, da lì, tutti gli altri. Insomma, si cresce e non si può essere punk per sempre. Ricordiamoci che dal punk sono usciti Sting, Elvis Costello, Patti Smith».

Ma quindi, possiamo dire che, crescendo, i vari Tony Boy e Tony Effe smetteranno di usare l’auto-tune e di essere arrabbiati?
«Non saprei perché oggi vince la mediocrità, per cui fa più notizia una rissa tra due trapper che una bella canzone».

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Enrico Ruggeri. Foto di Angelo Trani

Si ricorda il luogo del suo primo amore?
«Avevo 18 anni e lei, di cui non svelerò il nome perché oggi ha un ruolo importante, abitava in piazzetta Bossi, proprio dietro al Teatro alla Scala. Ancora adesso, quando passo da lì, ho un tuffo al cuore».

Com’è cambiata Milano?
«È cambiato un po’ il mondo: i bambini che giocavano per strada, il gelataio che passava sotto casa, e un’altra serie di cose romantiche che mi mancano, non ci sono più».

Dove abitava da piccolo?
«Fino a 10 anni sono stato un bambino ricco, ho vissuto in viale Majno, poi la mia famiglia ha subìto un rovescio economico e ci siamo trasferiti in Porta Romana. Mio padre aveva dato fondo al suo patrimonio quindi vivevamo dello stipendio di mia madre che faceva l’insegnante di musica alle scuole medie. Aveva iniziato alle elementari, ma gli alleati con un bombardamento le avevano fatto fuori tutta la classe nell’ottobre del ’44: si salvò perché quel giorno non faceva lezione».

Nella canzone La bambina di Gorla, il quartiere milanese dove avvenne la strage, racconta proprio la sua storia.
«Sì, forse ho aspettato che mia madre non ci fosse più per scrivere la storia di una bambina sopravvissuta alla strage e costretta a vivere con i suoi fantasmi: sono fatti che conosco da quando ho 4 anni e non sarà facile cantare dal vivo questo pezzo».

Anche lei, a un certo punto, si è messo a insegnare. Le piaceva?
«Sì, avevo 19 anni e insegnavo italiano e latino alle scuole medie Tito Livio a 500 metri da casa. Mi avevano chiamato per una supplenza di dieci giorni, poi la professoressa che sostituivo era entrata in maternità e mi era toccato un anno intero. Ricordo che ero diventato l’idolo di tutte le tredicenni e i maschi si pettinavano come me. In fondo, insegnare è un po’ come cantare: devi affascinare le persone».

In questo nuovo album ha dedicato il brano Il cielo di Milano alla sua città.
«Che è molto cattiva, brutale, anche se io l’amo molto e ci vivo da sempre. Per contro, è il motore del paese, la città più accogliente e inclusiva d’Italia, quella dove non gliene frega a nessuno se sei bianco, nero, gay o lesbica perché l’importante è che tu faccia bene il tuo lavoro».

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DOVE People è a cura di Manuela Florio

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