Enrico Rava: “Dove suono, mi sento a casa”

Leggenda del jazz, classe 1939, celebre trombettista, flicornista e compositore, Enrico Rava ha iniziato a viaggiare negli anni ’60 e non si è più fermato. Migliaia di concerti in tutto il mondo, performance sui palchi dei festival più prestigiosi e collaborazioni al fianco di musicisti come Archie Shepp, John Scofield, Pat Metheny lo hanno reso faro per L'articolo Enrico Rava: “Dove suono, mi sento a casa” sembra essere il primo su Dove Viaggi.

Apr 30, 2025 - 16:03
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Enrico Rava: “Dove suono, mi sento a casa”

Leggenda del jazz, classe 1939, celebre trombettista, flicornista e compositore, Enrico Rava ha iniziato a viaggiare negli anni ’60 e non si è più fermato. Migliaia di concerti in tutto il mondo, performance sui palchi dei festival più prestigiosi e collaborazioni al fianco di musicisti come Archie Shepp, John Scofield, Pat Metheny lo hanno reso faro per intere generazioni di talenti (a lui il merito di aver svelato artisti del calibro di Stefano Bollani e Paolo Fresu). Ora, una nuova avventura lo attende con il progetto “The Fearless Five”, quintetto in cui confluiscono energie giovani e creative sorprendenti. Con questo gruppo, non solo è nato il disco omonimo e sono arrivati i premi Top Jazz 2024 nelle categorie “Album” e “Formazione dell’anno”, ma aprirà anche la tredicesima edizione del Torino Jazz Festival 2025, in programma dal 23 al 30 aprile. Lo incontriamo alla vigilia dell’evento, e ci lasciamo incantare dai suoi racconti che intrecciano luoghi, cultura, umanità e ironia.

Torino: le sue radici…
«Sì, sono nato a Trieste per caso, perché mio padre lavorava lì, ma i miei genitori erano torinesi. L’infanzia è stata segnata dalla guerra: con mio padre al fronte, mia madre, mio fratello ed io eravamo sfollati a Villafranca Piemonte, un piccolo paese di campagna dove ho vissuto tra mucche e galline. Tornati a Torino con il conflitto ancora in corso, ricordo le sirene dei bombardamenti, il freddo, la scarsità di cibo. Poi, con la Liberazione, tutto cambiò: la città si ricostruiva, il pane tornava nelle botteghe. Arrivavano i film americani, i libri, la cioccolata e altre prelibatezze che assaggiavo per la prima volta. Forse sono state le privazioni da bambino a rendermi goloso ma, soprattutto, c’era la musica. Il jazz è stato per me la colonna sonora di una rinascita che sapeva di libertà e di promessa di un mondo nuovo».

Enrico Rava con “The Fearless Five”, il gruppo con cui aprirà il Torino Jazz Festival il 23 aprile.

C’è stato un viaggio che l’ha cambiata?
«Quello a Londradove mi sono trasferito nel 1964 con Steve Lacy (sassofonista e compositore statunitense, tra i più influenti del jazz moderno, n.d.r.) per formare un gruppo con altri due straordinari musicisti sudafricani, Johnny Dyani e Louis Moholo. Venivo da un’Italia formale, tutti vestivano in giacca e cravatta e somigliavano a funzionari statali. È stato uno shock: la cultura hippy, le minigonne, un jazz modernissimo, la musica dei Beatles e dei Rolling Stones. Sembrava che i soldi non contassero, ci si aiutava a vicenda.Là ho scoperto la cucina indiana e me ne sono innamorato. Nei ristoranti giusti, a Londra si mangia come in India: autentico, senza compromessi».

E poi cosa è successo?
«Lasciata l’Inghilterra, avevamo in programma una serie di concerti in Italia. Il nostro tour iniziò al Festival del Jazz di Sanremo, allora il più importante del Paese. Ma la nostra avanguardia spiazzò organizzatori e pubblico: molti se ne andarono a metà concerto, mentre i pochi rimasti, tra fan e detrattori, litigarono. La stampa ci demolì e il tour fu cancellato. Così ci trasferimmo a Buenos Airesdove quella che doveva essere una breve sosta si trasformò in un anno di permanenza».

Buenos Aires le è rimasta nel cuore…
«L’ho sentita su misura per me, tanto che ci sono tornato molte volte. Mi ha conquistato con la sua energia creativa. Il pubblico era ristretto e i guadagni limitati, ma i protagonisti della scena culturale erano affascinati dalla nostra musica: entrammo in contatto con scrittori come Ernesto Sabato e Bioy Casares, grande amico di Borges, con artisti del calibro di Alberto Ginastera, il più grande compositore argentino di musica contemporanea, e Jorge Zulueta, pianista d’avanguardia vicino a Stockhausen».

Poi è arrivata New York…
«Lacy e io siamo partiti nel 1967 per New Yorkdove sono rimasto per dieci anni. Sono arrivato a Manhattan, dove il costo della vita era accessibile, a differenza di oggi. Si viveva in un clima turbolento e il pericolo era sempre dietro l’angolo: la guerra in Vietnam, con manifestazioni quotidiane di reduci mutilati, la violenza politica palpabile, la presenza di gruppi come le Black Panther e i Weatherman, una diffusa microcriminalità… Era la New York dura di Taxi Driver di Scorsese, non quella adorabile dei film di Woody Allen. Tuttavia, una metropoli stimolante, ricca di arte, musica. E per il jazz, un paradiso».

Ci racconti.
«Ogni sera potevi scegliere tra un locale dove suonava Miles Davis, un altro con Thelonious Monk o un club in cui si esibiva Duke Ellington. Grazie a Steve Lacy, molto stimato nell’ambiente, si sono aperte porte inimmaginabili: ho avuto l’onore di suonare accanto a giganti come Cecil Taylor, Archie Shepp e Gil Evans. Quegli artisti mi hanno insegnato a non avere paura musicalmente, a dare il massimo in ogni esibizione, come se fosse l’ultima».


Le mancava casa?
«Quando vivevo a New York e giravo l’Europa in tour, trovavo rifugio nelle Cinque Terre, a Manarola, ospite di Gianni Amico, sceneggiatore, regista ed ex assistente di Godard e Bertolucci. Quei borghi erano un autentico paradiso. Mi hanno conquistato al punto che, una volta tornato in Italia, ho scelto di stabilirmi a Corniglia per qualche anno. Mi sono sentito parte di una grande famiglia: quando sono andato via, ogni volta che suonavo nei dintorni un gruppo di amici cornigliesi veniva a trovarmi, trasformando ogni concerto in un incontro speciale».

È anche cittadino onorario della città di Atlanta, in Georgia. Com’è andata?
«Nel 1979 ho collaborato con Michelangelo Pistoletto a un progetto artistico voluto dal primo sindaco afroamericano di Atlanta. Con noi c’erano il regista Lionello Gennero e il compositore Morton Feldman, tutti ospitati in una splendida casa ottocentesca con il tipico portico. Ne è nato un intenso programma di eventi con artisti del posto, gruppi musicali e teatrali. Ed è in una chiesa di Atlanta che ho vissuto la potenza autentica del gospel, non quello confezionato per turisti».

Si è fermato anche a Lugano per l’album del 2022 The Song is You, inciso con il pianista e compositore Fred Hersh.
«Lugano è per me una città speciale e la conosco bene, è luogo d’origine della famiglia di mia madre. Trasmette una sensazione di benessere autentico. La Svizzera mi piace molto, sarà per questo che apprezzo particolarmente la puntualità».

L’album “Fearless Five” vincitore del premio Top Jazz 2024 nelle categorie “Album” e “Formazione dell’anno” (Parco della Musica Records)

C’è un luogo che l’ha colpita in modo particolare?
«Siena è stata una rivelazione. Al primo Seminario internazionale estivo che ho tenuto al Siena Jazz, ormai 40 anni fa, ho pensato che fosse la città più bella che avessi mai visto, è una vera sinfonia per gli occhi. La fatica di quella esperienza fu enorme e tornato a casa pensai: “mai più!”. Invece, l’incanto di quella terra mi riporta ai Seminari ogni anno».

E un posto dove ha sentito il desiderio di fermarsi?
«La seconda volta che sono stato a Tokyo ho pensato: “Qui ci vivrei”, a parte la barriera linguistica. Anche il Canada mi ha affascinato, da Ottawa a Vancouver, Calgary e Montreal, con l’energia travolgente dei suoi festival dove sono stato sempre invitato. Mia moglie Lidia e io abbiamo per un momento immaginato di trasferirci lì, rapiti dalla bellezza della natura. Ma scoprire che d’inverno le temperature scendono sotto i 40° ci ha fatto desistere. Viaggiando tanto, anche in Sud America e Oriente, ho però capito una cosa: che sto bene dappertutto, ogni esperienza regala scoperte e conoscenza».

La prossima meta dove vorrebbe ritagliarsi una pausa?
«Mi piacerebbe tornare a Positano. E magari fare un giro della Costiera».

Ha mai suonato in un luogo dove si è creata un’emozione inaspettata?
«C’è stato un momento in cui la musica ha trasformato un luogo in qualcosa di sospeso, quasi irreale. Suonavo sul bordo del cratere del Vesuvio, insieme a Maria Pia De Vito e Roberto Taufic. Al pubblico era stato chiesto di non applaudire, per non spaventare una rara specie di uccelli che viveva lì, in quel momento. Così, anziché battere le mani, i presenti disegnavano nell’aria un gesto gentile, come un battito d’ali, creando così una speciale connessione tra tutti noi e la natura intorno. Un’emozione fortissima».

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