Lasciamo parlare la musica (e Quincy Jones): a tu per tu con Alberto Bof
Ci si agita tanto per dare contro ai “dj da Instagram”, ai musicisti che scalano le vette della popolarità solo perché sono buoni per gli stacchetti da TikTok, e va bene; ma – solito problema – se utilizzassimo lo stesso tempo e le stesse energie nervose per scoprire e sostenere i musicisti che meritano, beh,… The post Lasciamo parlare la musica (e Quincy Jones): a tu per tu con Alberto Bof appeared first on Soundwall.

Ci si agita tanto per dare contro ai “dj da Instagram”, ai musicisti che scalano le vette della popolarità solo perché sono buoni per gli stacchetti da TikTok, e va bene; ma – solito problema – se utilizzassimo lo stesso tempo e le stesse energie nervose per scoprire e sostenere i musicisti che meritano, beh, avremmo sicuramente un mondo migliore. Tanto più che ogni tanto bisogna andare “fra le linee”, per usare un gergo tecnico-calcistico, ed intercettare artisti che sfuggono ad ogni definizione ed incasellamento. Ecco, Alberto Bof è uno di questi. Le nostre strade si sono incrociate per la prima volta virtualmente, parlando con le persone che portano avanti quel gioiello assoluto che è il The Venice Venice Hotel (albergo magico sul Canal Grande, in cui ha il sottoscritto ha la fortuna di tenere delle listening session): proprio il Venice Venice aveva commissionato un lavoro da “artista in residenza” ad Alberto, lavoro prima uscito su vinile in tiratura limitata e numerata e ora, proprio da ieri, a distanza di oltre un anno, disponibile anche per l’ascolto “liquido”. Ed è un gran bell’ascolto, come potete sentire poco più sotto.
Poi, visto che le coincidenze non esistono, ricevendo un invito un paio di mesi fa per un workshop da Play Baltimora, vivace artist hub a Genova, è saltato fuori che c’era Alberto Bof in città in quei giorni, proprio perché in procinto di intensificare i suoi rapporti con Play Baltimora – del resto Alberto è originariamente di Genova, anche se ora vive a Biarritz e negli anni si è spostato per varie città, vedi Londra, Parigi, Los Angeles. Che fai, non appronti una chiacchierata? Quello che è venuto fuori è stata quasi un’ora di conversazione piacevolissima e a trecentosessanta gradi. Chiaro: si fanno molte pageviews a scrivere dell’ennesima polemica pro e contro Peggy Gou, pro o contro Deborah De Luca, pro o contro questo o quello, ma la ricchezza di una intervista come quella che potete leggere qui sotto dovrebbe essere valutata molto di più, nell’ecosistema comunicativo attuale attorno alla musica, di quanto viene valutata in realtà. Ogni tanto è bello fare portineria, ci mancherebbe, gossip attorno alla musica; ma quando incontri un uomo e un musicista di spessore come Bof, questa stessa musica torna ad essere quello che è davvero – un’avventura, una gioia, un’arma di crescita e conoscenza.
(Prima di tutto, i “Venice Venice Chronicles”; poi, passiamo al resto)
Partirei dal fondo: ci sono tante cose da raccontare, sei un artista che è stato ed è veramente in grado di attraversare tanti contesti, ma proprio per questo ti chiederei su cosa sei focalizzato adesso, in questo momento.
Direi che in questo momento sto studiando molto il nuovo pianismo jazz.
Un nome su tutti?
Sullivan Fortner. Ho appena finito una trascrizione di una sua versione, fatta uscire l’anno scorso, di “Don’t You Worry ‘Bout A Thing” di Stevie Wonder ed è incredibile. La mano sinistra non fa meramente da accompagnamento, fa spesso e volentieri da secondo canto. Una lezione imparata da Brad Mehldau. Ma l’importanza di un uso “evoluto” della mano sinistra è una prassi antica, la puoi ritrovare già nella musica classica, con Bach.
Non a caso Bach è adorato dai jazzisti, molto più di Mozart o Beethoven.
Già. La sua importanza continua ad essere enorme. Ad ogni modo, ora che mi sono trasferito al mare, in una solitudine un po’ eremita, ho finalmente il tempo di fare delle cose che invece prima, quando abitavo in grandi città, alla fine non avevo mai il tempo di fare… Ad esempio, riflettere e studiare su certe tecniche di pianismo. Naturalmente non c’è solo quello: sta uscendo un mio remix di cose house su una label legata ad Ibiza, poi ho appena finito una colonna sonora di un film dove ho rilavorato da zero il materiale di Curtis Mayfield, con alla voce Jamie Foxx…
Ah, però.
…e Joe Perry alla chitarra.
Joe Perry degli Aerosmith?
Esattamente. Che posso avere l’onore di chiamare amico, anche ieri ci siamo sentiti, parlando di un lavoro che avevamo fatto insieme per un film di Johnny Depp. E poi, l’altra cosa su cui vogliamo concentrarmi adesso è tornare a lavorare di più con l’Italia, magari come produttore. Sai, no, quanto ti dici “Magari con l’esperienza che ho qualche contributo utile lo riesco a dare, per evitare che il pop italiano sia sempre la solita cosa”. Lì il problema di solito è: le voci. Trovare le voci giuste, le voci con personalità e tecnica al tempo stesso. Non è facile.
Per nulla.
I francesi ci riescono un po’ meglio, per questo il loro pop è mediamente più interessante, anche se in Italia questo non lo sappiamo, perché non ci arriva.
Paradossalmente, è più facile siano i francesi ad interessarti ad act italiani – specie nel cantautorato – che il contrario.
Già. Ed è un peccato. Io ho vissuto a Parigi, ho lavorato per realtà importanti come Because, e ti posso assicurare che in Francia ci sono delle cose notevolissime, a partire ovviamente dalla house, che ha una tradizione molto forte e su cui hanno costruito un’impronta stilistica precisa, solo che in Italia non ci arrivano. E poi, un’altra cosa particolare è che in Italia le voci veramente belle spesso cantano in inglese, non in italiano.
Trovi che sia un problema?
Certo.
Però magari, per puntare al mercato internazionale, meglio l’inglese… Con l’italiano non ti si fila nessuno, a nord del Brennero e ad ovest di Ventimiglia.
Ma non è vero. Se una cosa vale davvero, se è fatta bene, funziona, supera i confini. Pensa alla Carrà.
O a Tiziano Ferro.
Ma guarda, pure senza fare questi esempi così melodici: pure il Jovanotti di “Penso positivo”.
Ah sì?
Era riuscito ad arrivare ad MTV, e aveva un airplay di tutto rispetto. Quando quel pezzo lì è uscito, io abitavo a Londra e ogni volta che dicevo che ero italiano mi rispondevano “Oh, yes – ‘Penso positivo’!”.
Il periodo acid jazz di Jovanotti, quando l’incontro con Saturnino gli ha cambiato la carriera.
Esattamente!
(Alberto Bof, ritratto da Luca Benedet)
Comunque ecco, siamo partiti da Mehldau e siamo arrivati all’acid jazz, passando per il French Touch nella house e pure per gli Aerosmith – e tutto questo in meno di dieci minuti di conversazione. Se poi penso che le tue ultime release stanno nel campo della neo-classica, mi viene da chiederti: Alberto, ma non sono troppe cose?
Forse sì. Ma, onestamente, io sono fatto così. Lo so, lo so che forse dovrei concentrarmi meglio su meno cose…
…sarebbe utile per il tuo, come dire?, brand profile.
Già. Vero. Ma io sono fatto così. E questo approccio onnivoro nasce molto semplicemente dall’amore per la musica, dall’amore per lo studio di essa e la ricerca su di essa. Il background è quello di studi classici al pianoforte, poi è arrivato l’amore per il jazz; ecco, cerco di tenere tutto insieme per quanto possibile.
Classica, jazz: generi che da anni, anzi, decenni difficilmente finiscono in radio, che difficilmente diventano popolari.
Spesso è anche colpa di chi la propone. Che vuole subito e solo darti solo le cose più complicate: se uno vuole ascoltare musica classica, non per forza deve partire da Mahler o Brahms, no? Esattamente come se uno vuole partire dal jazz dubito che fai bene se inizi a fargli sentire così dal nulla Ornette Coleman… L’ascoltatore, va accompagnato. Io con gli amici faccio così, infatti. Sono molto contento di far “scoprire” musica alle persone, ma so che va fatto per gradi, accompagnandole per mano. Alle declinazioni più “alte” e complesse ci puoi e devi arrivare, ma va fatto in maniera graduale. Cioè, quando uno è bambino inizia a parlare piano piano, no? Prima qualche sillaba, poi una parola, poi piccole frasi… Mentre spesso col jazz si pretende che questo bambino che ancora deve imparare pienamente a parlare ascolti subito frasi complicatissime e velocissime. Ma perché?
(Alberto Bof reinterpreta e “ringiovanisce” Rachmaninov; continua sotto)
Ecco, in tutto questo la house come si situa? Tu ne fai molta, ti piace lavorare sulla cassa in quattro col tuo pianismo, però ti lancio lì una provocazione e ti dico: rispetto ad altre, la musica house è notevolmente semplice, no?
Per certi versi è vero. Ma il fatto che sia più semplice di molte altre, non significa che non abbia le sue regole. E che non abbia il suo bagaglio storico. Il semplice suono di un hi-hat può stabilire se un brano funziona o meno, e questa è un’arte molto sottile da maneggiare e da gestire. I dj di solito non sono musicisti, effettivamente, cioè non suonano degli strumenti, ma hanno comunque una grande conoscenza della musica e, soprattutto, sviluppano una particolare attenzione al suono. Io, dai dj e dai producer di musica house, imparo sempre qualcosa. Da musicista, all’inizio mi pare sempre strano quando si lavora per ore ed ore su un singolo suono; poi però mi rendo conto che è un aspetto fondamentale, è anzi quello che fa la differenza fra qualità e non qualità. Questo è molto affascinante. Ed istruttivo.
Per continuare però la provocazione: la house è comunque generalmente molto statica armonicamente, è una musica “dritta” non solo ritmicamente.
Beh, vero. Una traccia con cambi molto armonici continui e magari complessi raramente piace ai dj… (risate, ndi). In effetti ammetto che quando lavoro sulla house un po’ mi devo “tenere”, devo quasi disimparare quello che so e suonare molto, molto semplice. Ma anche questo è un esercizio molto utile, sai? Perché suonare “semplice” è – bel paradosso – molto meno facile di quello che sembra a prima vista. All’inizio pensi “Eh vabbé, questa cosa ci metto tre minuti a farla”, poi però quando appoggi davvero le mani sul piano ti rendi conto che lavorare così sull’essenzialità è un’arte. Ha delle regole. Degli equilibri. Non è insomma una cosa da affrontare superficialmente: se lo fai, vai completamente fuori strada.
(Un momento della nostra chiacchierata a Genova, Villa Bombrini; continua sotto)
Provocazione bis: già che ci sei, potresti buttarti molto di più sulla musica da club e portarla in giro. Si sa, da dj o comunque da artista che fa musica dal vivo riconducibile a materiale da club la vita è spesso più facile, più divertente e più ricca di chi fa classica o jazz. E tu che puoi scegliere…
Eh, mi ha rovinato Los Anges. (sorride, ndi)
In che senso?
Quando stavo a Parigi, spesso facevamo prove fino a tarda sera e poi, ancora con l’adrenalina in corpo, andavamo magari in giro per club – e la cosa mi piaceva molto. Ma anche a non andare per club, comunque era normale per me fare abbastanza tardi: quindi sì, lì avevo il “fisico” e la voglia per tenere gli orari “da club culture”. Poi però mi sono trasferito a Los Angeles…
…e?
E, mi sono inevitabilmente appassionato al surf.
In effetti, so che tu eri un grande appassionato di skate da ragazzino. Il passaggio al surf è inevitabile, se ti trovi in California.
Già. Il problema è che, soprattutto se sei principiante, devi prendere i venti buoni: e quelli arrivano alle sette e mezza, otto del mattino, massimo alla nove. E tu devi essere pronto in spiaggia almeno un’ora prima che arrivino. Questo ovviamente ha finito coll’ammazzare la mia vita notturna: se prima amavo fare tardi in cerca di jazz o house, ora non potevo più farlo, avrebbe significato semplicemente non dormire e no, non era sostenibile! Però è vero che molti artisti sono più efficaci e ricettivi nelle ore notturne, a partire da Beethoven. Ma anche Quincy Jones, per dire.
Ecco: tu Quincy l’ha conosciuto di persona.
Già. E mi raccontava di come si svegliasse alle quattro del pomeriggio, per poi lavorare tutta la notte.
Com’è incontrare un Quincy Jones?
Pazzesco. Semplicemente pazzesco. Me l’hanno presentato di persona mentre ero a Los Angeles alla premiere di un suo documentario. Capisci, quando mai ti capita di avere di fronte Quincy Jones di persona? E allora, ho provato subito ad impressionarlo: “Piacere, sono di Genova. Sai che conosco Bobby Durham?”. E qua la cosa va spiegata per bene…
(Bobby Durham nel trio di Oscar Peterson; continua sotto)
Vai.
Bobby Durham era un ottimo batterista jazz, uno che ha suonato con Ella Fitzgerald ed Oscar Peterson per capirci, che ad un certo punto della sua vita si è trovato a stare nelle colline dietro Genova, manco mi ricordo bene dove. La cosa da sapere è che i jazzisti dell’epoca avevano un po’ tutti dei soprannomi.
Bird, Cannonball, eccetera eccetera…
Già. Che poi quelli sono soprannomi diventati pubblici, ma in realtà molti restavano circoscritti a quelli dell’ambiente, ai colleghi. E quello di Bobby Durham era “Cannon”, perché le sue rullate erano come colpi di cannone. Che poi, io con lui ci ho anche suonato, in quel posto magico di Genova che era il Nick Masaniello di un po’ di anni fa… Arrivava lui, facevamo le jam session, e suonare con lui veramente ti faceva capire il concetto di “bending”, di cioè “piegare il tempo” quando si suona la batteria. Lui suonava incredibilmente “avanti”, e questo davvero dava una forza e un twist particolare alla musica. Ma torniamo a Quincy, ed al perché ti sto raccontando tutto questo: dopo che gli dico questa cosa di Durham, lui mi fa subito: “Of course, Bobby! Cannon!”. Cioè, capisci? Io credo che Quincy abbia suonato nella sua vita con non so quante decine di migliaia di persone, eppure gli è bastata una frazione di secondo per ricordarsi di Durham, e pure del suo soprannome di battaglia. Lì ti rendi conto che certi uomini sono rari, sono veramente un pozzo di scienza e conoscenza che cammina.
Ed è una fortuna incontrarli. Ma come domanda finale ti lancio la terza e ultima provocazione: è una fortuna anche lavorare molto su commissione, come fai tu? Vieni cioè spesso “prestato” a colonne sonore, collaborazioni con dj, sonorizzazioni. Tutti progetti di altissimo livello, però ecco, magari l’artista che è in te un po’ ogni tanto soffre.
Con l’esperienza, impari a gestire la cosa. Ovviamente quando sei più giovane hai un po’ paura di perdere la tua identità, a lavorare così tanto per altri, e su indicazioni di altri. La chiave è divertirsi anche quando lavori su commissione.
È possibile farlo, quindi.
Assolutamente. A partire dal fatto che è divertente ad esempio conoscere le persone, e se vuoi fare un buon lavoro una prima regola importante è tentare di conoscere bene per chi stai lavorando. Ad esempio recentemente ho fatto un lavoro per il regista Valerio Esposito – un lavoro di un certo livello, nel suo film c’erano due premi Oscar, F. Murray Abraham e Danny Glover – ed è stato molto divertente cercare di capire al meglio cosa voleva da me. Anche perché devi sempre essere consapevole che sei tu al servizio del regista, non viceversa.
Uno step di umiltà.
Sì, e ti dirò, anche il lavorare molto nella musica da club e coi dj è utile: perché come ci dicevamo loro non sono di solito dei musicisti, non sanno suonare uno strumento, ma hanno una visione molto chiara di quello che vogliono ottenere. E quindi arrivano da te e ti fanno “Vorrei un suono così”, “Vorrei una frase musicale di questo tipo”, e mimano tutto con la bocca o con la voce o addirittura ti descrivono una sensazione, non è che ti danno indicazioni precise su un pentagramma: tu, da musicista, devi essere bravo a trasformare tutto questo in musica vera. È un ottimo allenamento, credimi.
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