Dal mic a Payback: Egreen ci parla di rap, informazione e difficoltà del settore

Ci vorrebbero più conversazioni così: informazione, live, problematiche del settore, media, dischi, etichette, colleghi… tutto ciò che ruota attorno alla musica. Non dovrebbe essere sempre così quando un addetto ai lavori parla con un rapper? Forse sì, forse no. Non c’è una risposta giusta o sbagliata. Quello che è certo è che la nostra chiacchierata con Egreen – da poco fuori con i primi due volumi di Fare Rap Non È Obbligatorio – ci è piaciuta un sacco. Anzi, avremmo […] L'articolo Dal mic a Payback: Egreen ci parla di rap, informazione e difficoltà del settore proviene da Rapologia.it.

Mar 31, 2025 - 13:28
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Dal mic a Payback: Egreen ci parla di rap, informazione e difficoltà del settore

Ci vorrebbero più conversazioni così: informazione, live, problematiche del settore, media, dischi, etichette, colleghi… tutto ciò che ruota attorno alla musica. Non dovrebbe essere sempre così quando un addetto ai lavori parla con un rapper? Forse sì, forse no. Non c’è una risposta giusta o sbagliata. Quello che è certo è che la nostra chiacchierata con Egreen – da poco fuori con i primi due volumi di Fare Rap Non È Obbligatorio – ci è piaciuta un sacco. Anzi, avremmo voluto approfondire ancora di più, ma il tempo, si sa, è sempre tiranno.

Leggetela con attenzione e andate ai live, ce ne è bisogno.

«È difficile campare di un’arte che attinge da un contesto underground»: Egreen si racconta tra musica e industria

Perché secondo te è così difficile parlare di rap? I media, quando hanno davanti i rapper, parlano di tutto ma non di quello che dicono nei dischi. I fan li sento quasi sempre parlare di mood, outfit, numeri ma di testi mai. Come siamo arrivati a questo?

«Guarda, ho la risposta. Siamo in un momento storico in cui alla gente piacciono i rapper e non piace un genere musicale. Non c’è nulla di male nell’affezionarsi alla figura di un artista ma il problema nasce quando diventa un’abitudine molto pericolosa, quasi un riflesso incondizionato, prendere per scontato che ti appassioni di più all’interprete (underground o mainstream) piuttosto che al genere, perché allora vedi che nel momento in cui tu ti appassioni di più all’interprete ti ritrovi a disquisire e a toccare delle tematiche che come hai detto tu poi vanno a toccare tutte delle cose tranne che la musica in sé e per me questa cosa è molto pericolosa. Non ho detto che non ci siano dei fan di questo genere orizzontali, ma il rapporto secondo me, volendo essere ottimisti in Italia, è di 70/30 a favore di una tipologia di fanbase che si è abituata per via del sistema ad essere verticale e non orizzontale. Con questo io non voglio dire che il fan di Noyz Narcos debba per forza essere il fan di Murubutu e a sua volta debba essere per forza il fan di Egreen. Ci devono essere gli schieramenti ma se non c’è un’omogeneità sorretta da una curiosità di fondo e da un amore per il genere, oso dire incondizionato (ma mi rendo conto che è impossibile per carità ma è quasi provocatorio dirlo da parte mia) allora quello secondo me diventa un problema. Ad alte sfere non si vedono tanto gli effetti collaterali di questo problema, perché si parla di fette gigantesche di pubblico ed è molto probabile che quelli che riempiono il Forum per Tedua sono gli stessi che lo riempiono per Massimo Pericolo e sono gli stessi che riempiono il Forum per Sfera e per Guè. Il problema si manifesta invece sotto la punta dell’iceberg, in cui 50 persone in meno a un concerto, per un artista underground, cazzo, sono una differenza enorme. Sono 500 euro con un biglietto a 10 euro che permettono a un locale di dire “oh, ok, è giugno, faccio la programmazione da settembre a marzo. Mi faccio Claver Gold, Egreen, Murubutu, Armani, Toni Zeno, Gentle T…” ma non possono fare quel calcolo perché si ritrovano magari con una doppia tripla data per Claver, in alcune città una bella data per Egreen ma per altri vengono i fan di uno o i fan dell’altro. Non sto generalizzando, ma sto dicendo che purtroppo è un dato di fatto, perché se così non fosse saremmo tutti in tour e ci sarebbe una rete di locali. Precisazione doverosa: i locali si differenziano fra gestore e promoter. Il promoter non lavora in locale, è come se fosse un agente di commercio che in base a dove c’è mercato porta l’offerta in un contenitore che dovrebbe contenere la domanda, ossia il pubblico. Questa figura, assieme ai punti che ti ho detto prima, sono gli elementi che permettono di generare un business. Chiunque voglia pensare male sentendo queste parole secondo me forse ha qualche carenza in termini di elementi necessari ad avere una chiave di lettura completa. Questa è la mia visione».

É molto stimolante potermi confrontare con chi ha la visione diretta da rapper ma anche di chi lavora per portare in giro a suonare i vari rapper di Payback. Come sai, io sono di Brescia e ho visto, almeno dopo il Covid, una riduzione devastante a livello di locali e disponibilità per far suonare i rapper anche più piccoli, mentre prima non era così. E parlo di Brescia, che non è affatto una città piccola, figuriamoci altrove. Non so se hai notato anche tu questo calo a livello di offerta per suonare dal vivo, che secondo me va a pari passo con la voglia che ha la gente di ascoltarsi la musica velocemente online piuttosto che andarla a sentire sotto a un palco.

«Sì e ti dico anche un dato importante che va preso in considerazione. Milano non fa testo perché Milano è un mondo a parte, però quello che ti posso dire è che Brescia non è Ragusa. A Brescia c’è un reddito pro capite di un certo tipo, c’è un potere di acquisto, c’è industria… e il fatto che in una città che genera comunque ricchezza questo aspetto “socioculturale” stia avendo dei problemi, denota semplicemente il fatto che, in parte, la gente non ha più soldi ma forse bisogna affrontare la dura verità che la gente adesso vuole altro. Ma noi cosa possiamo fare? Rimanere fermi o cercare di provare a trovare delle soluzioni? Secondo me il tutto ha a che fare con un turnover generazionale che sta accadendo adesso più che mai. Forse servono dei momenti come questo di ripartenza in cui viene schiacciato il grande tasto rosso reset, perché se poi tu apri le piattaforme di distribuzione come mai c’è così tanto underground? C’è veramente tanta, tanta, gente valida e allora io dico, qual è la maniera meno stupida per inquadrare realmente qual è il problema? Perché tutti questi altri rapper forti non sono in tour? E mi ci metto anch’io in questo gruppo perché ho annunciato tre date, non trenta, e c’è gente dell’altro campionato che ha già annunciato gli estivi con le doppiette la stessa sera. É una situazione devastante».

Sì, come anche il fatto che in un battibaleno vanno a ruba i biglietti per i grandi palazzetti o perfino per gli stadi. Una cosa inimmaginabile prima nella scena, però io avrei apprezzato che insieme a queste cose – che secondo me fanno benissimo al genere perché permettono a tutti di vederlo, portano introiti etc. etc. – ci potesse essere dall’altra parte una crescita esponenziale anche di posti che dessero disponibilità e possibilità per i più piccoli, per l’underground. E invece…

«Senti, parlando con te sto formulando un pensiero. Io mi ricordo che ormai tre mie vite fa – quindi prima decade del duemila, non oltre il 2008 – stavo ancora a Busto Arsizio e mi ricordo che un posto era stato letteralmente adibito a sala concerti ed era il periodo in cui Vacca stava andando molto forte. Io mi sono ritrovato una sera in cui mi son detto “Ah c’è Vacca a Busto, ok andiamolo a sentire“: bro non era un club per concerti, ma come situazioni come queste ne ho viste tante altre, tantissime altre, ed erano dei posti che venivano adibiti a portare esibizioni del vivo nel momento in cui si era generata una forte richiesta di un artista, Quindi il pensiero che io sto formulando parlando con te è che forse il problema non è tanto quello dei locali che vanno e vengono; il problema è che di base non c’è una richiesta talmente tanto forte da poter dire a qualcuno “cazzo, oh, c’è un botto di gente che mi sta chiedendo sto artista, se non lo fa nessuno, sai che c’è? lo faccio io al pub in fondo alla via“. Quel pub lo riempi, la voce gira, la settimana dopo lo fanno nel paesino di fianco in una sala un po’ più adibita e allora le voci girano. Perché parlando invece di figure professionali, bro, ai gestori dei locali che cazzo pensi che gliene fotta qualcosa se stanno facendo la programmazione del punk, o del metal, dell’elettronica… ma se l’underground fosse forte, pensi che Basalari non farebbe un Hip-Hop Motel al mese al Number? È perché quella gente lì sono imprenditori. E quindi che cosa fanno? Lavorano dove c’è della domanda. Il problema grosso è che questa domanda non c’è».

Chi secondo te è l’interlocutore per questa domanda? Perché io vedo i fan che scrivono sotto i post degli artisti “perché non vieni a Firenze? perché non vieni a Bari?” ma l’artista ti dice che bisogna contattare i gestori dei locali. Dubito che le persone possano arrivare al gestore del locale. Dov’è che bisogna arrivare?

«Guarda, il problema è che queste persone sono sempre troppo poche e spesso sono le stesse persone che, per casualità, quella volta che fai un live a venti chilometri da loro non si spostano. Io ormai con alti e bassissimi giro da tanti anni e sono delle situazioni che sistematicamente si ripresentano. Alla fine della giornata uno vuole fare musica e vuole essere felice: perché ti devi privare di voler riempire la Hall di Padova? Se Frah Quintale avesse continuato coi Fratelli Quintale, col cazzo che avrebbe riempito quei posti e attenzione, è un elogio che sto facendo, perché ognuno ha il suo percorso. A Brescia io ho organizzato il concerto per la presentazione di Supercella di Liffa e Barra1 e in queste occasioni cerco di fare delle selezioni prima del main event che rendano omaggio a chi ha fatto la storia di quella città. A un certo punto, ho suonato il 64 Bars di Frah Quintale e la cantavano tutti, quel pezzo è una bomba. Ti posso poi nominare Mecna, uno dei tre Microphone Killarz, uno dei primi gruppi hardcore di Foggia, dove non c’era un cazzo: anni dopo è sbocciato in un’altra roba, certo, ma vagli a dire “ci hai mollati” o altro. Oppure Willie Peyote che, con tutta la dignità del mondo, è andato a Sanremo a rappare e Willie è uno col quale ho fatto anche una canzone anni fa. Se ci fosse stato del mercato, forse queste persone non avrebbero sentito l’esigenza di intraprendere questo percorso. E non dico di svendersi, perché per me si parla comunque di professionisti di altissimo livello: se avessi avuto io i coglioni di mettermi in gioco anni fa, invece di fare il nazi dell’hardcore, forse adesso pure io sarei dall’altra parte. Si vede che ci sono stati molti fattori per i quali queste persone, che hanno dimostrato di aver avuto qualcos’altro da dire, che gli ha fatto prendere in considerazione dire “ma a me chi cazzo me lo fa fare?“. E io a quarant’anni, fiero delle mie vittorie, delle mie sconfitte, ti posso dire: “sai che c’è Quare? Mi immedesimo in questi ragazzi: li capisco e non li biasimo“. È ovviamente sempre una questione di scelte. L’esempio più grosso di tutti si chiama Giovanni Pellino: è il padre di tutti questi, che altrimenti non avrebbero forse potuto permettersi di prendere determinate decisioni. Un altro esempio è Ghemon: è uscito Dove Mangiano i Cuochi, ha fatto una strofa che ha mandato tutti a casa, zitti, e cazzo gli devi dire. Per quanto mi riguarda io non ti devo dire niente, ti devo dire “chapeau! ci vediamo alla prossima quando ti tornerà voglia di rappare” e sicuramente romperà il culo.  Ad ogni modo non so se c’è una soluzione vera e propria a questo trend…»

Anche perché bisogna partire dal presupposto che in Italia l’hip hop non lo si capisca ancora, no? Cosa bisognerebbe fare per trasmetterne la sua essenza? Non dico i valori o la storia, ma dico la piena consapevolezza di cosa sia un brano rap, di cosa sia un graffito e via dicendo…

«Quare, non so. La gente è così perché è stata educata a seguire una persona e non un movimento controculturale. Quindi tu sei un fan di Banksy senza sapere che c’è tutto un dibattito dietro a quel nome, c’è tutto un confronto, c’è una roba gigantesca, oppure sei fan dei 1UP, che per carità va benissimo, ma ci sono un sacco di crew gigantesche in giro per il mondo. C’è poca curiosità e poca voglia di andare a scavare, c’è poca curiosità di assistere e creare situazioni super partes in cui poter parlare di questi argomenti. Secondo me questo è un momento in cui c’è un forte bisogno di dover parlare di questi temi, di parlarne con voi e di avere una platea che sia curiosa. Ma attenzione, non ti parlo dell’evento organizzato dalla major, con il tipo che lavora per quel l’ente parastatale in cui se devono parlare di campionamento raccontano solo una versione dei fatti come per carità è giusto che ci sia, ma servono delle situazioni in cui i fatti vengano riportati sotto forma di cronaca nella maniera più intellettualmente onesta possibile e si dispiega sul tavolo una serie di elementi che possano servire a fornire alle persone una coscienza critica e una chiave di lettura per scatenare un dibattito sano».

Sarebbe ottimo dare continuità a questa tipologia di incontri e questa modalità di informazione. A tal proposito, mi viene da chiederti come valuti oggigiorno l’informazione sul rap? Manca secondo te qualcosa o vedi qualcosa su cui chi fa informazione sul rap dovrebbe puntare?

«É un tema che scotta questo, ne abbiamo anche parlato insieme quando abbiamo fatto il talk. È un tema molto delicato perché in questo momento siamo nel pieno della saturazione totale all’interno dell’informazione ed è completamente inserita all’interno di contenitori ai quali non gliene frega un cazzo dell’informazione stessa. Parlo ovviamente di TikTok, Instagram, Facebook, piattaforme a cui non gliene frega un cazzo di qual è il livello di informazione che tu stai inserendo lì dentro. E quindi questa cosa qua è un autogol su cui non possiamo farci un cazzo, perché io sono convinto con tutto me stesso che anche un “leader di settore” come Esse abbia al suo interno delle persone che fanno delle proposte: non li sto difendendo, non escludo che vengano fatte delle riunioni, che vengano prese delle decisioni su cosa comunicare e che spesso purtroppo loro siano schiavi del peso specifico che hanno. Se domani mattina dedicassero un post alla vita di Roy Ayers, mancato di recente e che è stato un po’ il padre di molte cose che sono successe nel mondo della musica, poi avrebbero una caduta vertiginosa di engagement che comunque andrebbe a nuocere la struttura in sé e a mettere in discussione il fatto che possa stare in vita o meno. Perché se fanno una roba del genere su Quincy Jones,  una roba del genere sulle etichette dipendenti che hanno portato in auge il rap negli anni novanta, fai una settimana a fare un contenuto incredibile così e dopo un mese che fai queste cose qua, chiudi. Ma perché? Perché siamo tutti schiavi di queste logiche. Poi c’è un altro tema che è stato importante durante il nostro incontro: ma chi cazzo ci sta campando con delle pagine di informazione? E questa è una grossa frustrazione che in qualche maniera è un parallelismo con il fatto che è difficile campare di un’arte che attinge da un contesto underground. Purtroppo, chiunque non attinga da fonti che in qualche maniera rappresentano delle wave o dei trend, o veramente la imbrocca di culo che manco lui ha saputo come o è fottutamente difficile. Ieri sera ho fatto una telefonata con un’artista e mi ha detto “guarda, Nicolas, dopo anni di post, ho postato un contenuto l’altro giorno trattandolo in maniera proprio povera, ecco, quella roba nel giro di poche settimane ha generato una roba tipo due milioni e mezzo di visualizzazioni“. Manco lei se ne capacitava. Secondo me è importante prendere delle posizioni ma purtroppo c’è da scontrarsi contro la realtà che i fattori nell’informazione sono molteplici: non c’è solo contenuto. Ti dirò un’altra cosa: sono contento che la sto dicendo a te perché così non passo per paraculo. Anche un cieco si renderebbe conto che Rapologia ha una linea estetica definita, ha dei font definiti, le grafiche non vengono mai fatte per caso. Poi lì subentra qualità dei contenuti, costanza e magari dei piccoli colpetti di fortuna nel riuscire a prendere l’attenzione di alcune strutture più grandi che investono, perché non c’è niente di male in questa cosa dell’adv, altrimenti uno come cazzo campa, anche se c’è modo e modo di fare adv, capito?»

Egreen

E tu, in tutto casino, hai deciso di dar vita a un’etichetta indipendente. Viste le difficoltà di etichette passate portate avanti da rapper italiani, è stato o non è stato complesso portare avanti la decisione di fare una label tutta tua? 

«Senti Quare, non mi voglio nascondere dietro un dito. Io ho fatto tanta fatica in generale con il rap. Se gli intenti sono stati in cuor mio nobili e positivi nelle “battaglie” che ho deciso di combattere, molti modi sono stati errati, dettati dalla mia mancanza di esperienza e altre cose. Quando sono tornato dalla Colombia, io mi aspettavo che sarebbe finito tutto con Nicolas, pensavo che quello sarebbe stato il mio disco d’addio. Invece ho visto che leggermente la curva stava cambiando trend e io molto lentamente ho preso coraggio di dire “ok, devo tenere duro fino al decennale, vediamo come va e poi faccio l’etichetta“, perché io a questa cosa ci pensavo già dal 2020, però dovevo chiudere dei capitoli per aprirne altri e ti dico non c’è stato un ragionamento di lucro o di dire “adesso faccio il colpaccio“. Io avevo il sogno di essere un po’ un fratellastro, un figlio illegittimo di Tuff Kong, di lavorare con i vinili. Ero molto affascinato dall’idea di poter lavorare con cose che uno potesse toccare con mano e di fare manualmente qualcosa sia in funzione delle mie tasche – perché con i vinili c’è del margine di guadagno – sia comunque di creare un altro polo intorno al quale ci potesse essere un piccolo faro che negli anni ingrandisse sempre di più la propria luce, in quella che viene denominata la scena. Poi questa cosa non è successa perché non è un bel periodo per i vinili, almeno se si parla di tirature a certi livelli, e quindi mi sono ritrovato a dire “ok ho azionato questa cosa, non ho niente da perdere o la va o la spacca, cerchiamo di imparare un lavoro strada facendo e di capire che cosa succede“. Molto è dettato dall’incoscienza e anche dal fatto che io amo questa cosa profondamente: è la mia vita più o meno da quando ho quindici anni e adesso ne ho quaranta. Ho voluto dare a me stesso l’ultima possibilità e lo dico senza vergogna, prima di voler capire se è davvero il caso di scrivere la parola fine e di portare il curriculum all’Esselunga. Ok proviamo a capire se ci sono i margini per passare da giocatore ad allenatore e nel frattempo vedere se poi questa cosa del rap può può rimanere una costante senza la necessità che venga fatta per pagare l’affitto. Perché comunque l’abbiamo detto in tutta l’intervista: il periodo è fertile dal punto di vista creativo, ma dal punto di vista del business è molto complicato».

Tu stai ancora vivendo di tutto questo, quindi, giusto?

«Sì, vivo dei miei dischi e dei concerti. Stima che ho cominciato a vivere di rap con Il Cuore E La Fame, in quell’anno di transizione in cui mi sono licenziato, ossia il 2013. Faccio giganteschi sacrifici, qualche volta è andata bene, qualche volta è andata male. Ho sempre girato. Quando è iniziata la pandemia ho avuto dei problemi economici enormi e poi, insomma, la macchina è ripartita con Nicolas, quindi sì, in questo momento vivo ancora di rap ma non so ancora per quanto, perché noi viviamo, non alla giornata, ma al mese».

Ti fa onore cerca di vivere con la tua passione, con il rap, gli artisti, i live, i vinili. E a proposito di questi ultimi, ho visto che sullo store di Payback hai dei vinili di rapper americani come Crimeapple, ElCamino: come è nata questa cosa?

«Uno dei miei soci in Payback è una persona che aveva un’etichetta e commercializzava e produceva vinili, anche americani. Grazie a lui siamo riusciti a incorporare questa attività e prendiamo anche dei vinili in contovendita. Per esempio c’è una release di Frank n Dank gestita da VibraRecords e mi son fatto dare in contovendita il vinile. Cerchiamo di arricchire il più possibile lo store».

E stai anche cercando di arricchire il più possibile il tuo roster di artisti in Payback!

«Guarda, una cosa che cerco di comunicare a spada tratta è che sto cercando di impostare Payback non sul modello di business “adesso stai con me e basta“. Semplicemente sto cercando di impostare questa cosa in modo tale che possa avere un ricircolo il più libero possibile per gli artisti e di lavorare a progetto. Quindi il motivo per il quale escono tante cose è perché mi piace poter prendere in mano dei progetti, buttarli fuori e vediamo come è andata. Se alla fine di questo progetto tu sei contento, io sono contento, perché no, facciamo qualcos’altro e nel frattempo puoi fare le tue cose. Secondo me è la maniera più onesta e corretta anche nei confronti degli artisti, specialmente se sei un new comer e non ti vuoi precludere altre opportunità. Ti faccio un nome: Gentle T. Certo che io vorrei lavorare ogni suo disco ma so che è impossibile a meno che lui non lo voglia. Lui però sa come lavoro e che sto imparando tutto questo assieme alla crescita della label e degli artisti e devono essere loro ad avere la voglia di collaborare ancora. Questo è lo spirito con il quale sto affrontando l’etichetta».

E in Italia, almeno nel rap, è una novità come approccio per una label, no?

«Sì, perché secondo me un grosso sbaglio che è stato fatto negli anni è stato quello di mettere delle casacche addosso ai rapper, omologarli sia in termini di attitudine ma soprattutto anche di cifra stilistica, di suono… per esempio io sto lavorando con questo ragazzo molto giovane di Napoli che si chiama Davide Chyky e che se senti lui, senti Damn Daniel, senti Peter Wit o senti Inda, sono quattro cose che non c’entrano assolutamente una con l’altra, ma è sempre underground e c’è sempre un retaggio culturale, c’è sempre un’appartenenza, una scena locale, giovani o vecchi che sia».

Con un sacco di questa gente hai pubblicato ben due volumi di Fare Rap Non È Obbligatorio in due settimane. Ero curioso di farti una domanda su questo nome, molto semplice, ma neanche troppo considerando i tempi che corrono. Se fare rap non è obbligatorio, cos’è obbligatorio secondo te per chi fa rap?

«Secondo me deve avere qualcosa da dire. È fondamentale avere qualcosa da dire, non importa tanto rivendicare una storicità ma importa avere qualcosa di onesto da dire e avere un minimo le idee chiare, secondo me è molto importante».

Assolutamente mi trovi d’accordo, visto quante volte abbiamo a che fare con artisti che dicono “non ho niente da dire ma la mia etichetta vuole che faccia questo disco” oppure artisti che non dicono proprio nulla. Che poi, secondo me, puoi anche dire nulla ma ti basta dirlo bene!

«Come diceva Sean Price!»

Esatto! Invece abbiamo gente che non dice nulla ma lo dice anche male e vaffanculo! Vabbé… Ascoltando il disco, invece, tu non ti fai problemi a dire che hai cambiato un po’ il tuo approccio. Mi riferisco al tuo prenderti male sul rap italiano. In un pezzo dici tipo ironicamente che hai “smesso di frignare invidioso dei commensali”: come hai fatto a cambiare approccio?

«È stato un lavoro infinito su me stesso, ancora adesso ogni tanto ci ricasco perché sono un essere umano, non sono perfetto e ho un carattere di merda. Però quando sei troppo impegnato a vedere quello che c’è dall’altra parte, non ti rendi conto di quello che hai tu, allora vuol dire che ti stai perdendo il bello. Eh, figa Quare, a 40 anni, non dico che mi vedo già con un piede nella fossa, però cambia davvero tutto. Non sono rassegnato ma sono molto più consapevole che ho ancora meno tempo di prima e voglio essere felice di fare ciò che sto facendo».

Credo che ti faccia del bene, come secondo me ti ha fatto del bene anche variare così tanto anche a livello di producer con cui hai collaborato. Mi ha sorpreso tra l’altro vederti sul beat di FlatPearl, come mi ero gasato ai tempi quando ci avevi sorpreso rappando sul beat di Mask Off di Future

«Certo, mi metto in gioco continuamente e questa cosa secondo me è importante».

Mi sono poi piaciuti un botto i beat di Azukori!

«Ah, grande, sta migliorando e io ho creduto in Azukori dal giorno zero, continuo a credere in lui tantissimo e ci darà tante soddisfazioni in futuro».

Mi sono piaciuti anche molti dei tuoi ospiti. Non solo i nuovi, ma anche i veterani come Lil Pin e Ares Adami. Quest’ultimo secondo me merita un sacco, è uno dei migliori MC per antonomasia che abbiamo in giro e sono contento che possa avere una dose in più di visibilità.

«Ho sentito poche persone come lui in freestyle. Non a caso, non dico che Drimer sia suo figlio – che è un talento nettamente sopra la media in Italia e adesso è diventato veramente padrone della sua arte – però sicuramente per quanto riguarda il freestyle se Drimer adesso è così forte è perché un suo sparring partner negli anni è stato Ares Adami. E c’è da dire un’altra cosa bro: loro non arrivano da Milano, da Napoli, da Roma… questi arrivano da Trento e uscire da queste città che sia Nord, Centro, Sud è ancora più difficile».

Vorrei poterti fare altre domande, ma il tempo purtroppo è quello è che è, quindi concludo chiedendoti semplicemente se stai già lavorando a un Fare Rap Non È Obbligatorio 3 visti i due volumi pubblicati in due settimane. 

«Sì, ci sono già delle cose per il 3 e c’è un’altra cosa in ballo!»

Tenetevi pronti. Ringraziamo intanto Nicolas per il tempo che ci ha offerto e gli facciamo un grosso in bocca al lupo per questi suoi progetti, che mettono sempre e comunque il rap al primo posto.

 

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