Luca V torna con “Pelle di Prozac”, un singolo che esplora l’anestesia emotiva
Con “Pelle di Prozac”, Luca V affronta il tema dell’isolamento emotivo e del dolore nascosto. Il brano nasce spontaneamente una notte di marzo, quando l’artista si sente distaccato dalla realtà, come se fosse separato da uno strato di vetro. La sfida era tradurre questa sensazione in musica senza cadere nel cliché del dolore autoreferenziale. In […] The post Luca V torna con “Pelle di Prozac”, un singolo che esplora l’anestesia emotiva appeared first on Indielife.it - Magazine indipendente dedicato agli artisti emergenti.

Con “Pelle di Prozac”, Luca V affronta il tema dell’isolamento emotivo e del dolore nascosto. Il brano nasce spontaneamente una notte di marzo, quando l’artista si sente distaccato dalla realtà, come se fosse separato da uno strato di vetro. La sfida era tradurre questa sensazione in musica senza cadere nel cliché del dolore autoreferenziale.
In collaborazione con Lorenzo Avanzi, Luca V crea un tappeto sonoro minimalista che accarezza senza opprimere. La sua voce, fragile ma intensa, esplode nel ritornello, esprimendo vulnerabilità senza ricorrere a drammatiche sovrastrutture. “Pelle di Prozac” non è solo un brano, ma un tentativo di avvicinarsi a ciò che si prova senza pretendere di risolverlo.
Dopo due anni di silenzio, il singolo segna un ritorno autentico, in cui Luca V riflette sul suo rapporto con la musica e la necessità di scrivere per esistere, non per abitudine.
Il concetto di “anestesia emotiva” è centrale in Pelle di Prozac, un’idea che sembra nascere da un senso di smarrimento e dal bisogno di elaborare il dolore. Quanto è stato difficile per te tradurre questa sensazione in parole e musica senza cadere in una rappresentazione troppo pesante o autoreferenziale?
Tradurre il concetto di anestesia emotiva in musica è stato, per me, come camminare in equilibrio su una corda sottile: da un lato il bisogno viscerale di essere sincero, dall’altro il timore di scivolare in una narrazione troppo pesante, quasi opprimente, o peggio ancora autoreferenziale. Non volevo scrivere un brano che fosse un esercizio di autocommiserazione. Ero alla ricerca di qualcosa di più sottile, più profondo. Qualcosa che potesse toccare senza invadere, suggerire senza spiegare troppo.
Il nucleo emotivo di Pelle di Prozac nasce da un momento preciso – una notte di marzo, insonne, in cui mi sentivo completamente staccato dalla realtà, come se stessi vivendo sotto uno strato di vetro. Ero bloccato in un limbo dove non riuscivo più a distinguere se fossi triste, arrabbiato, vuoto. E da lì, senza pensarci troppo, sono partiti i primi versi. Con l’iPhone in mano, ho registrato la voce mentre scrivevo nel blocco note. Nessuna metrica studiata, nessun ritornello preimpostato: solo un flusso. E forse è proprio per questo che funziona – perché non nasce per piacere, ma per “liberare” la mente.
Dal punto di vista musicale, ho avuto al mio fianco Lorenzo Avanzi, che ha saputo leggere tra le righe, ancora prima che io finissi di scrivere il testo. In studio ci siamo detti: “Vogliamo malinconia, sì, ma non disperazione. Vulnerabilità, ma non vittimismo”. E così abbiamo costruito un tappeto sonoro che accarezza, senza mai schiacciare. La voce arriva quasi in punta di piedi, per poi esplodere nel ritornello, come quando trattieni qualcosa per troppo tempo e poi non riesci più a contenerlo.
Eppure – e lo dico con consapevolezza – non è stato facile restare onesto senza cadere nel cliché. Il dolore, soprattutto quello interiore, ha una forma così sfuggente che è facile ridurlo a immagini abusate. Ho cercato di evitarlo rifugiandomi nei dettagli, nei piccoli gesti quotidiani, nei silenzi pieni. Perché spesso la sofferenza non urla: si insinua, si nasconde nei margini. E se la racconti con troppa enfasi, rischi di svuotarla del suo significato.
C’è un filo invisibile che tiene insieme tutto: il bisogno di essere capito, anche senza dover spiegare ogni cosa. Pelle di Prozac non è un messaggio diretto, ma piuttosto una domanda lasciata in sospeso. Come quando guardi qualcuno negli occhi sperando che legga quello che non riesci a dire.
Hai raccontato che la canzone è nata quasi per caso, in una notte di marzo. Spesso i brani più autentici sembrano emergere spontaneamente, ma quanto è stato poi il lavoro in studio a definire il risultato finale? C’è stata una fase in cui hai dovuto ‘razionalizzare’ il tuo impulso creativo?
Sì, la genesi del brano è stata istintiva. Quella notte non avevo in mente un progetto, né un singolo da pubblicare: era solo un accumulo di sensazioni che cercavano una via d’uscita. Nessuna intenzione precisa, nessuna struttura pensata a priori. È come se la canzone fosse arrivata da sola – senza bussare – e io mi fossi limitato ad aprire la porta. Ma ovviamente, quello era solo l’inizio.
Il vero lavoro è cominciato dopo. In studio ho dovuto affrontare il materiale grezzo con uno sguardo completamente diverso. Non è stato semplice, anzi: è stato come rileggere una pagina del tuo diario davanti a qualcun altro. E lì inizi a chiederti: serve davvero questa frase? È chiaro quello che voglio dire o sto solo parlando a me stesso? In certi momenti ho dovuto mettere da parte l’impulso creativo per analizzare tutto con lucidità, anche rischiando di intaccarne la spontaneità.
Razionalizzare non significa snaturare – almeno, non nel mio modo di lavorare. Significa dare un contorno, lasciare che l’istinto si incontri con la consapevolezza. Alcune parti sono rimaste intatte, altre hanno richiesto di essere smussate, ripensate, persino messe in discussione. Non per paura di essere troppo, ma per il desiderio di essere giusto. E con “giusto” non intendo perfetto, intendo autentico nella sua forma più comunicabile. C’è una parte del processo che è pura chimica – inspiegabile, luminosa. Ma ce n’è un’altra che è “artigianato”: taglia, incolla, riscrivi, scarta. E lì, in mezzo a quei frammenti, ho scoperto che anche l’istinto ha bisogno di essere guidato. Solo così, almeno per me, un’idea può diventare una canzone.
La produzione minimalista e il tuo approccio vocale rendono il pezzo intimo ma anche molto evocativo. Come hai trovato l’equilibrio tra il voler creare un’atmosfera avvolgente e il rischio di far risultare il brano ‘troppo’ malinconico?
Trovare quell’equilibrio è stato, più che una scelta stilistica, un ascolto costante. Non solo del brano, ma di ciò che il brano chiedeva di diventare. C’era una sottile linea da non oltrepassare: volevamo costruire un’atmosfera che fosse avvolgente, sì, ma senza appesantire, senza rendere l’esperienza dell’ascolto claustrofobica o eccessivamente cupa. La malinconia, a volte, se spinta oltre un certo punto, rischia di diventare compiacimento. E non era questo ciò che cercavo.
La produzione minimalista è nata quasi per sottrazione. Mano a mano che lavoravamo sul pezzo, ci rendevamo conto che ogni suono in più, ogni strato aggiuntivo, finiva per distorcere la delicatezza di ciò che avevamo tra le mani. È stato più un “togliere” che un “aggiungere”. Alcuni brani vivono di grandezza, di stratificazione, di potenza sonora. Questo, invece, doveva respirare. Doveva lasciare spazi vuoti. Doveva suggerire più che mostrare.
Dal punto di vista vocale, ho cercato di non “recitare” un dolore. L’obiettivo non era essere drammatico, ma sincero. Ho scelto un’espressione più contenuta, a tratti quasi sussurrata – come quando parli a qualcuno in confidenza, magari a fine giornata, con una voce che si piega più che imporsi. Una voce che non cerca di convincere, ma di condividere. Questo tipo di approccio non è scontato, perché può sembrare fragile, perfino incerto. Ma è proprio in quella fragilità che, secondo me, si annida la forza del pezzo.
Non volevo che l’ascoltatore “uscisse dal pezzo” con un peso addosso. Volevo che si sentisse compreso, in qualche modo accolto. Pelle di Prozac non è una canzone che ti urla addosso la sua tristezza. È più simile a una stanza silenziosa in cui puoi riconoscerti, anche solo per qualche minuto.
Nel testo si percepisce una forte dicotomia tra la voglia di comunicare e l’incapacità di farlo pienamente. Ti capita spesso di sentire questa distanza emotiva anche al di fuori della musica? Credi che scrivere possa essere un modo per colmare questo vuoto o è solo un’illusione temporanea?
Sì, quella distanza esiste. E no, non riguarda solo la musica. È qualcosa che mi accompagnava spesso nella vita di tutti i giorni, anche nei momenti più ordinari – in una conversazione, durante una cena, o persino mentre guardavo qualcuno negli occhi. Ci sono giorni in cui sentivo di avere mille cose da dire, ma quando aprivo la bocca non usciva niente che somigliasse davvero a quello che provavo. È come se tra me e il mondo ci fosse stato uno strato, sottile ma costante, che rendeva tutto leggermente ovattato. Un filtro emotivo che non sapevo bene come rimuovere.
E a quel punto scrivere diventa un modo per tentare. Per approssimarsi a un’emozione. Non la risolve, non la cancella – ma la fotografa. Non sempre riesce a restituirla con fedeltà, ma in alcuni casi ci va vicino. Ed è già tanto. In certi momenti scrivere per me è una specie di traduzione simultanea: prendo quello che sento, lo passo attraverso un setaccio di parole, e provo a dargli una forma leggibile. Non è detto che funzioni, però ogni tanto riesce ad avvicinarsi a qualcosa di vero.
Allo stesso tempo non voglio illudermi che basti. Scrivere non è fare terapia. O meglio, lo è solo in parte. È una tregua temporanea, una parentesi – e a volte per me anche una scusa per non affrontare direttamente le cose. Ma è anche uno spazio che mi permette di esistere senza dover per forza spiegare tutto a voce, che per me è spesso il mezzo meno efficace per dire quello che conta.
Mi rendo conto che questa difficoltà nel comunicare non sparisce solo scrivendo canzoni. Anzi, a volte si accentua. Più scavi dentro, più ti rendi conto di quante cose restano lì, inespresse, anche quando pensavi di averle dette. Eppure, se scrivere non colma davvero il vuoto, può almeno ridisegnarlo. Dargli contorni nuovi. Renderlo meno freddo.
Quindi no, non è una soluzione. Ma forse è l’unico modo che conosco per restare vicino a ciò che provo, anche quando non riesco a raccontarlo a nessuno. Anche quando quella distanza sembra troppo grande per essere attraversata. Scrivere, per me, è un modo per provare. E a volte provare è tutto quello che possiamo fare.
Il brano esce dopo due anni di silenzio discografico. Questo periodo ti ha portato a ripensare il tuo rapporto con la musica? C’è stata una fase in cui hai temuto di non riuscire più a esprimerti attraverso le canzoni?
Quel periodo di silenzio discografico non è stato affatto silenzioso, almeno non dentro di me. È stato un tempo di frizione, di rallentamento, in cui tutto si muoveva ma senza un ordine preciso. Non avevo smesso di pensare alla musica, né di scrivere. Ma la scrittura (quella autentica, quella che ti “scava”) sembrava non voler più venire a galla. Ero lì, davanti al foglio o al microfono, con qualcosa da dire e allo stesso tempo con l’incapacità di dirlo nel modo giusto. Ogni parola mi sembrava sfocata. Ogni suono, già sentito.
In quel momento ho iniziato a interrogarmi davvero sul mio rapporto con la musica. Non tanto in termini professionali (quelli li metti in discussione continuamente, fa parte del gioco) ma in senso più personale, quasi esistenziale. Avevo iniziato a cantare per raccontarmi, per tradurre il caos in qualcosa di umano. Ma cosa succede se quel caos diventa muto? Se non ti fidi più nemmeno della tua voce?
C’è stata una fase, sì, in cui ho pensato di aver perso l’accesso a quella parte di me che crea. Non per mancanza di ispirazione, ma per una forma più subdola di stanchezza. Una specie di afasia emotiva. Continuavo a cercare dentro, ma era come bussare a una porta chiusa. E quella chiusura, più che bloccarmi, mi ha spaventato. Perché non sapevo se fosse temporanea o definitiva.
Poi è arrivata una notte qualsiasi, senza pretese. Nessun piano. Nessuna pressione. Solo il bisogno di scrivere qualcosa che fosse reale. E l’ho fatto. Con poche parole, su Note dell’iPhone, nel buio. Non sapevo che stavo scrivendo il seme di un nuovo brano. Volevo solo liberarmi di un nodo che portavo dentro da troppo tempo.
Quando è nato Pelle di Prozac, non ho sentito un trionfo. Ho sentito sollievo. Come se qualcuno avesse finalmente aperto una finestra dopo mesi di aria viziata. Non mi ha risolto i dubbi, quelli restano, e forse è giusto così, ma mi ha ricordato perché faccio musica: per necessità, non per abitudine.
Oggi il mio rapporto con la musica è cambiato. È più cauto, più selettivo. Non scrivo più con la stessa frenesia di prima, ma quando scrivo sento di esserci davvero. Non è un’urgenza di produrre, è un’urgenza di esserci. Anche quando la voce trema, anche quando i suoni arrivano a fatica. Forse soprattutto in quei momenti.
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