Mogol, i ricordi e la musica che ha cambiato l’Italia
A quasi 90 anni, Mogol è ancora una leggenda vivente della musica italiana. In un'intervista al Corriere della Sera ripercorre la carriera L'articolo Mogol, i ricordi e la musica che ha cambiato l’Italia proviene da imusicfun.

A quasi novant’anni, Mogol è ancora una leggenda vivente della musica italiana. Parole che hanno plasmato generazioni, collaborazioni storiche, una carriera che ha attraversato decenni e rivoluzioni culturali. In una lunga intervista al Corriere della Sera, l’autore si apre come raramente accade, tra memoria e riflessione, raccontando aneddoti di vita e momenti cruciali del suo percorso artistico. Ma soprattutto, parlando sempre della musica: fedele compagna di una vita vissuta intensamente.
Il primo ricordo? Tenerissimo: «Ho sei mesi. Sono in braccio alla mamma. Lei mi dà dei colpetti sulla spalla per farmi addormentare, e io mi sento sicuro». Mogol torna poi agli anni duri della guerra, vissuti da bambino in Brianza: «Il sibilo delle bombe prima dell’esplosione, la gente che si rifugiava negli scantinati. E le lacrime, tante lacrime». Il padre? «Un antifascista silenzioso», che gli negò la divisa dei Balilla per poi regalargli una costosa bici da corsa.
Il grande salto avviene negli anni Sessanta, grazie al lavoro alla casa discografica Ricordi: «Cominciai col tradurre dei brani dall’inglese. Trasformai Space Oddity in Ragazzo solo, ragazza sola. Un successo. A David Bowie piacque così tanto che l’ha anche cantata, in italiano». Quella canzone fu poi scelta anche da Bernardo Bertolucci per il film Io e te: «Ricordo quando Bernardo venne a trovarmi a casa. Era già in carrozzina, si muoveva a fatica. Un uomo straordinario».
Perché Mogol? «Non volevo usare il nome di mio padre. Alla Siae portai una trentina di pseudonimi. C’era anche Zippo. Per fortuna scelsero Mogol». E no, non c’entra l’Oriente: «Come il Gran Mogol delle Giovani Marmotte», ride.
Il ricordo più doloroso resta quello legato a Luigi Tenco: «Mi chiese di migliorare il testo di Ciao amore. Non ero d’accordo, non era una canzone da Sanremo. Cercai di dissuaderlo, parlammo tutta la notte in una pensione. Ma lui voleva vincere. Quando fu escluso, si tolse la vita». E aggiunge: «In quella tragedia ci furono tre vittime: lui, Dalida e il marito di Dalida. Tutti e tre morti suicidi».
Con Mina i rapporti furono artistici, ma non sempre semplici: «Una grande artista, anche se non volle Il mio canto libero. La convinsi però a cantare Il cielo in una stanza di Gino Paoli». Con Lucio Battisti, invece, nacque una delle alleanze più feconde della musica italiana: «Lucio era un genio. Con lui non c’era bisogno di parole in più».
Non solo musica. Mogol racconta anche esperienze al limite dell’incredibile: «In Australia mi tuffai in mare e mi trovai circondato da squali. Nuotai lentamente verso riva, pregando». La fede, racconta, lo ha accompagnato spesso: «Credo che Dio ci protegga. Mi ha salvato anche a Porto Rotondo, quando rischiai di annegare perché l’amico con la barca si mise a corteggiare la baby-sitter».
«Ho avuto una vita incredibile. Ho corso molti pericoli. E ho rischiato la vita più di una volta», confessa. Eppure, tutto sembra ruotare sempre attorno a una sola forza creativa: la musica. La stessa che lo ha reso immortale, che gli ha fatto scegliere il nome Mogol, che lo ha portato nelle stanze di Bowie e nelle lacrime di Tenco, che lo ha visto scrivere canzoni entrate nel DNA del nostro Paese.
«Come può uno scoglio arginare il mare», scriveva per Battisti. E forse, in fondo, è proprio questa la sua risposta alla vita: non arginarla mai. Solo viverla, e raccontarla. Con le parole giuste.
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