Paul Preuss: un nuovo libro affronta le ragioni di certe scelte al tempo molto discusse

“Paul Preuss. Il signore dei precipizi” è un’interessante biografia sul fuoriclasse austriaco curata da David Smart. Non solo le scalate esemplari, ma un viaggio nel suo modo di affrontare le pareti. Che suscitò innumerevoli critiche L'articolo Paul Preuss: un nuovo libro affronta le ragioni di certe scelte al tempo molto discusse proviene da Montagna.TV.

Apr 15, 2025 - 05:16
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Paul Preuss: un nuovo libro affronta le ragioni di certe scelte al tempo molto discusse

Il signore dei precipizi. La prima cosa che colpisce leggendo il libro di David Smart, pubblicato in Italia qualche settimana fa per Corbaccio, è proprio il sottotitolo. Paul Preuss – definito da George Mallory “ineguagliabile”, da Hans Dülfer “maestro completo”, da Emilio Comici “insuperabile” e da Giusto Gervasutti “insuperato” – viene descritto dall’autore come “il signore dei precipizi”. La cosa più curiosa è che, nell’originale inglese, quei precipizi sono resi con il termine “abyss”, abisso. Letteralmente, però, l’abisso viene dopo il precipizio: è il vuoto, sul quale quest’ultimo si espone. Ma la scelta della traduttrice Clara Mazzi è calzante.
Se sugli abissi Preuss si esponeva e danzava – insuperato, insuperabile, completo ed ineguagliabile – lo doveva espressamente ai precipizi nei quali s’inerpicava, per definizione pareti scoscese e dirupate, sulle quali qualsiasi errore non avrebbe lasciato scampo. E dove, di fatto, una caduta gli fu fatale, il 3 ottobre del 1913, lungo la Cresta nord del Mandkogel, affrontata – come di consueto – “allein”, solo. Ma Preuss non fu signore di quell’abisso, quanto piuttosto del precipizio che lo sovrastava, nel quale trovò, seppure per poche ore, pace, conflitto, vita e morte. Così come la biografia di Smart racconta nel dettaglio.

Per molti era (ed è) un folle

Nella comunità alpinistica, nominare Preuss significa – ancora e per fortuna – nominare una sorta di divinità. Un santo indispensabile, che fu capace, oltre cent’anni fa, di percorrere una strada ad oggi impraticabile per la maggioranza degli arrampicatori. Eppure, come per i nomi dei santi e dei loro miracoli, ogni volta che si menziona Preuss c’è un velo di scherno e di incredulità a minarne non tanto la credibilità quanto il rispetto che meriterebbe. “Era fortissimo, ma completamente pazzo”. “D’altronde è morto a 27 anni”. Già Preuss stesso presagiva queste reazioni quando scriveva, nei suoi diari fedelmente riportati da Smart, di essere “solo, con le mie opinioni. Ovunque io esprima anche solo una piccola parte di esse la risposta è sempre la medesima: sarebbe perfetta, ma è un’idea folle”.
Le sue idee folli non nascevano dal desiderio di allineare il mondo ai propri ideali: per quanto questi fossero infatti nobili, un progetto del genere sarebbe rimasto l’obiettivo di un fanatico. Al contrario, Paul Preuss tracciò una linea dura nel mondo dell’arrampicata con un intento parallelo a quello del Marchese di Queensberry, che con le sue regole aveva fatto il possibile per mitigare il dolore ai pugili e garantire la civiltà di uno sport brutale. Ecco, le idee di Preuss cercavano invece di mantenere il rischio di ferite in uno sport che era minacciato non tanto dalla brutalità quanto dall’eccessiva civilizzazione.

Ma quali erano queste idee folli, queste teorie impraticabili? “Se uno non riesce a disarrampicare, allora non deve nemmeno salire” tanto per cominciare. Oppure “il pensiero ‘se cadi, resti appeso a tre metri di corda’ ha un valore meno etico del sentimento provocato da ‘se cadi, muori’”. O ancora, “un’arrampicata ben protetta è mera ginnastica su pareti ripide in completa sicurezza e di conseguenza un allenamento inutile”. Farneticazioni di un pazzo, appunto, se Preuss stesso non le avesse applicate con successo alla propria attività in montagna. Eppure non esagerava mai i suoi risultati, venendo qualche volta tacciato di falsa modestia, forse perché la sua franchezza circa le proprie debolezze in arrampicata frustrava i suoi avversari nei dibattiti, poche volte altrettanto sinceri.

Quel fischietto di latta regalato dal papà
Ebreo convertito, Preuss si avvicinò alla montagna grazie al padre, assiduo camminatore, avventurandosi talvolta per conto suo anche da bambino, ma sempre provvisto di un fischietto di latta per segnalare eventuali difficoltà. Da quel momento in avanti, da quando il padre glielo donò per responsabilizzarlo, Paul ne portò sempre uno con sé, come una sorta di talismano protettivo oppure, ancora, come un’ammissione di vulnerabilità. Paul Preuss non era, infatti, un superuomo. Pur superlativo in parete, aveva sofferto di una grave forma di poliomielite che da ragazzino lo aveva costretto in carrozzina per un lungo periodo e dalla quale era guarito anche grazie alla montagna, oltre che alla pazienza degli esercizi ginnici della madre e alla costanza con cui il padre lo sorreggeva, per farlo riprendere a camminare. Gli sforzi riuscirono, e le uscite dal giardino alla strada si trasformarono gradualmente in impegnative escursioni nell’Altaussee, in scanzonate arrampicate con i compagni di università nel Salzkammergut ed infine nelle solitarie più estreme, Totenkirchl e Campanil Basso di Brenta su tutte. “Ovunque non ci siano pericoli veramente oggettivi – scriveva – io sono un convinto alpinista in solitaria. Per stretti che siano i legami di amicizia e di affetto che ci uniscono al compagno, il pericolo che si raddoppia per l’alpinista solitario viene abbondantemente pareggiato dal godimento mille volte più grande. Ma cosa più preziosa mi sembra sia che solo soli ci rendiamo conto coscientemente della prodigiosa potenza della natura che ci circonda, delle commozioni più sottili e profonde del nostro cuore, delle combinazioni più nascoste dei nostri pensieri”.

No, di certo non sono le farneticazioni di un pazzo. Piuttosto, le dichiarazioni di un arrampicatore talentuoso, conscio del pericolo. Ciò che emerge dal lavoro mastodontico e preciso di David Smart è come Paul Preuss sia stato frainteso in forza di un colossale cortocircuito. Ogni sua dichiarazione era fatta, paradossalmente, con l’intento di garantire sicurezza, ma tramite la rimozione delle misure di sicurezza, costringendo gli arrampicatori ad assumersi grossi rischi, ma per insegnare loro a non correre pericoli estremi. Preuss non esortò mai gli arrampicatori a mettersi deliberatamente in pericolo di vita, bensì a scalare solo quello che gli riusciva in sicurezza. Quando diceva di pagare il prezzo della sua filosofia alpinistica e di fare enormi sacrifici, intendeva sacrificare le scalate che avrebbe potuto compiere compromettendo il suo stile di arrampicata, non il sacrificio di perdere la vita. L’appello alla responsabilità individuale che trasuda dalle parole di Paul è infatti lo stesso che latita nelle palestre oggigiorno, dove dispositivi di assicurazione sempre più performanti prendono il posto della preliminare e fondamentale modulazione delle scelte, dove i manuali sostituiscono l’esperienza e dove il controllo governa la paura, lasciando poco spazio al libero coraggio dal quale l’arrampicata è nata e – in taluni e fortunati casi – ancora cresce.

Il rispetto di Tita Piaz

In molti hanno contrapposto Paul Preuss, lo scavezzacollo, a Tita Piaz, che per quanto “Diavolo delle Dolomiti” fu comunque una stimata guida alpina, nonostante la sua figura fosse, almeno per i primi anni, ammantata di abusivismo. David Smart, attraverso la sua opera, ci fa capire quanto invece questi due fuoriclasse, separati solamente da sette anni di differenza, fossero simili e complementari. Tita Piaz apprezzava l’abilità di Preuss, con una sorta di fraterno timore per la vita del ragazzo e preoccupazione per la sua arroganza. L’arroganza di un giovane uomo libero da vincoli, di contro all’audacia più ponderata di Piaz, marito e padre di due bambine. “Siamo uomini, prima che alpinisti”. scriveva Piaz. “L’alpinista non deve reprimere l’uomo. I nostri famigliari hanno più diritti nei nostri confronti di qualsiasi scintillante ideale alpinistico. Se l’uso del più ridicolo chiodo avesse salvato una vita umana, quell’uso sarebbe stato per questo motivo giustificato”. Magari un ridicolo chiodo fosse riuscito a salvare la vita di Preuss! Del suo appello al rischio, oggi, c’è ancora bisogno.

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