Andare in montagna con uno spirito nuovo
Scritto da Jamaica Kincaid, Passeggiata sull’Himalaya aiuta a immaginare un diverso approccio con le Terre alte. Più libero e personale, senza lo stress della “conquista”, qualunque essa sia L'articolo Andare in montagna con uno spirito nuovo proviene da Montagna.TV.

Cosa sta succedendo alle vette himalayane? Le notizie che ci arrivano, una dopo l’altra, fin dall’inizio di questo 2025,vanno tutte in un’unica direzione: business, sempre business, fortissimamente business. La commercializzazione dell’alpinismo, con “vendita diretta” delle cime (o meglio, dei permessi per salirle) ha un grosso impatto sulle economie locali ed è comprensibile che i governi vogliano ottimizzare, implementare, insomma spremere fino in fondo il fenomeno. Se per l’economia cinese l’income da turismo alpino è tutto sommato trascurabile, viste le dimensioni dell’economia nazionale, così non è per il Pakistan e soprattutto per il Nepal, che vede stabilmente un numero di visitatori superiore a un milione l’anno. Il governo nepalese, come ha riferito su montagna.tv recentemente il nostro Stefano Ardito, vende circa 2500 permessi l’anno (dato del 2023) per un totale di quasi 6 milioni di dollari, cifra significativamente più piccola rispetto al fatturato delle agenzie specializzate e dell’indotto totale. La prima idea, quindi, è stata quella di aumentare il costo dei permessi: un Everest vale 15.000 dollari rispetto agli 11.000 dello scorso anno, un incremento di ben il 35 per cento. Seconda mossa, finora allo stadio di proposta: aumentare il numero degli Ottomila da 14 a 20 (le “nuove” cime sono quasi tutte nei gruppi del Lhotse, che già a sua volta sarebbe una vetta secondaria dell’Everest, e del Kanchenjunga) per moltiplicare le opportunità di vendita. Una terza notizia che ci arriva è quella dell’agenzia austriaca che promette l’Everest in tre giorni (pacchetto completo al costo di 150.000 euro) grazie all’utilizzo del dopante xenon, che permetterebbe di “saltare” il periodo di acclimatamento. Una notizia che forse è da derubricare tra le boutade (“bazzeccole, pinzillacchere…”, direbbe Totò), ma che comunque dà la misura del grado di consumismo a cui è giunto il “comparto Ottomila”.
In questo panorama in qualche modo deprimente, giunge come una boccata d’ossigeno il libretto di Jamaica Kincaid Passeggiata sull’Himalaya (titolo originale Among Flowers. A walk in the Himalaya) pubblicato la prima volta nel 2005 e ora tradotto da Adelphi. L’autrice, tra le maggiori scrittrici afroamericane, è tutt’altro che un’alpinista e il massimo delle sue quote sono le basse montagne del Vermont, dove abita. Ma è un’appassionata di giardini. “La comparsa del giardino nella nostra vita quotidiana” scrive “è talmente accettata che ne riconosciamo e abbracciamo la presenza come qualcosa di terapeutico, poiché alcuni diranno che strappare le erbacce è una forma di consolazione e un modo di adattarsi sia alla sofferenza sia alla felicità”. Il suo giardino archetipico, peraltro, è quello di una terra mitica, condiviso con milioni di persone come lei rimosse dall’Eden (l’Africa): “Questo perché casa tua, il luogo da cui provieni, è sempre l’’Eden, il luogo in cui anche le imperfezioni erano perfette e ogni cosa venuta dopo ha messo fine al Paradiso, al tuo Paradiso”.
Con queste premesse, la quest, la ricerca della Kincaid del Paradiso perduto può avvenire in ogni luogo del mondo, nel Vermont come, perché no, sulle colline dell’Himalaya. E l’occasione le arriva quando organizza, nel 2001, un viaggio in compagnia del botanico Dan Hinkley, a cui si aggiunge poi un’altra coppia di botanici e vivaisti del Galles. La caduta delle Torri Gemelle ritarda la partenza di un anno, ma finalmente nell’ottobre 2002 si parte davvero. Il racconto che ne scaturisce è un semplicissimo diario di viaggio (soprattutto a piedi), pieno di meraviglia e di sorprese, di notazioni botaniche tra foreste fiorite di rododendri, euforbie, zingiberacee, raccolte di semi il cui destino sarà probabilmente di morire del giardino americano dell’autrice, paesaggi straordinari ai piedi del Makalu e del Kanchenjunga, e l’incontro con le popolazioni rurali nepalesi, in regioni non ancora attraversate dalle fiumane di turisti. E l’ammissione, anche, di muoversi in un mondo alieno a cui il viaggiatore occidentale non appartiene, facendo lo slalom tra estrema fatica, problemi sanitari, mal di montagna e sanguisughe, conflitti locali (all’inizio del Millennio il Nepal si confrontava ancora con la guerriglia maoista).

Un altro compagno della Kincain durante la sua “passeggiata” è Frank Smythe, o per lo meno il suo meraviglioso libro The Valley of Flowers, che l’autrice porta nello zaino e richiama anche nel titolo del suo libro. Smythe fu uno degli alpinisti inglesi di punta negli anni Trenta dello scorso secolo: lo ricordiamo, sulle Alpi, soprattutto per le due vie aperte con Thomas Graham Brown sulla Brenva (la Major e la Sentinella Rossa), e per una serie di precoci esplorazioni del Kanchenjunga e dell’Everest (ben tre spedizioni al Tetto del Mondo tra il 1933 e il 1938). “Leggendo i resoconti delle sue spedizioni” scrive l’autrice “ho notato che faceva sempre qualche piccola deviazione per arrampicarsi su un rilievo coperto di neve poco distante. Al ritorno, qualche giorno dopo, raccontava se era riuscito a raggiungere o no la vetta e di come, strada facendo, aveva trovato qualche bellezza nascosta sulle rive di un ruscello, e solo il suono dell’acqua che gocciolava giù, o lungo il cammino, gli aveva rivelato qualche meraviglia del regno vegetale che sarebbe stata nuova per ogni anima ottenebrata d’Inghilterra”.
Tutto qui. Alle nostre anime ottenebrate dal turismo di massa, dalla montagna consumistica, dalla frenetica ricerca di nuovi record, nuova popolarità social, nuovi guadagni, consiglio dunque la lettura di questo resoconto di viaggio di Jamaica Kincaid, e magari la riscoperta del libro di Frank Smythe. Questi racconti ci porteranno in Himalaya, o su una qualsiasi altra catena di montagne, con uno spirito nuovo e fresco, sensibile alle cime ghiacciate come al più umile dei fiorellini. E ci faranno rivalutare il valore di una “passeggiata” senza l’incubo del cronometro o di Instagram.
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