Comprendere l’oceano. Intervista a Kathryn Mohr
Kathryn Mohr, che ci ha conquistato con Waiting Room, il suo debutto su The Flenser ma in realtà terzo lavoro sulla lunga distanza, sembra essere ben più di una semplice promessa della folktronica, e se ne sono accorti in tanti. I suoi suoni sono dominati dalla ricerca rumoristica, a metà strada tra il gusto industriale e quello gotico, mentre lo stile lirico è visionario, per certi versi allucinato. Californiana di nascita, di base a Oakland, ha esordito nel 2020 con As If del 2020, nove brani che lasciavano intravedere un’intensa fascinazione per l’elettronica minimale; nel 2022 è stata la volta Holly, dove, accanto alle perduranti suggestioni ambient, si facevano strada, ancora più esplicitamente che nel primo lavoro, sfumature acustiche dall’attitudine folk. Nel 2024 ha partecipato alla compilation Your Voice is Not Enough, un omaggio ai Low e alla memoria di Mimi Parker, con una bellissima cover di Cut, mentre nel frattempo pubblicava i singoli del suo nuovo lavoro solista. Waiting Room è un disco difficile e intenso, a tratti claustrofobico, a tratti delicato, che alterna frenesie e sussurri, riff tirati e ballate struggenti: spaventoso e rigenerante come una nuotata nell’Artico. Chiacchierando con lei, scopriamo che è un’artista molto schiva, che non ama molto parlare di sé, ma che diventa prodiga di aneddoti quando c’è da raccontare la sua musica. Ho letto che Waiting Room è stato registrato in Islanda, in un ex fabbrica di pesce in scatola. Una location decisamente inusuale. Come mai hai deciso di andare fin lì? E quanto ti ha condizionato, nel dare forma al processo creativo, trovarti in un posto così remoto? Sono finita lì per caso. Un’amica artista, Suzanne Yeremyan, mi ha raccontato della sua esperienza al Fish Factory Creative Center di Stöðvarfjörður e delle persone che vivono lì. Ho deciso di contattarli e chiedere se avessero una stanza per me, per trascorrerci un mese con altri artisti, e in effetti ce l’avevano, quindi sono entrata nell’ordine di idee che, sì, era qualcosa che avrei fatto. Non ero mai stata in Islanda e sono uscita dagli Stati Uniti veramente poche volte. L’isolamento è stato immenso e liberatorio all’inizio. Alla fine mi sono sentita un po’ frenetica, come se stessi impazzendo. Le mie giornate erano disorganizzate, potevo farne quel che volevo. Ricordo di aver completamente dimenticato che giorno fosse e di aver pensato che fosse un buon segno, che era così che doveva essere. Il tuo è un disco delicatissimo, fatto di ballate struggenti (Petrified, Take It), di trame melodiche intessute su sussurri (penso alla bellissima Driven), ma ha anche dei momenti più distorti e “sinistri” (Elevator). Quali sono gli stati d’animo che ti hanno maggiormente guidata nella composizione di Waiting Room? È stato un lungo processo di elaborazione, di riflessione. Gli ingranaggi nella mia testa giravano, ma in un modo che non potevo esprimere a parole. Allontanarmi dalla mia vita quotidiana e da tutte le mie routine mi ha dato una prospettiva molto contrastante, ma anche chiara, su tutto ciò che avevo attraversato negli ultimi anni e sulla mia vita nel suo complesso. Mi sono guardata attraverso la lente di dove mi trovavo, e devo dire che Stöðvarfjörður era una lente del tutto insolita e particolare. Sebbene sia un disco molto minimale, c’è un’attenzione sorprendente per i pattern rumoristici. Come se oltre ai tuoi sussurri, ad accompagnarti ci fossero “le voci” degli oggetti e dei luoghi che ti circondavano. Vinny Wood (di Atomic Analog, che vive e lavora a Stöðvarfjörður e aiuta a gestire il centro creativo) mi ha prestato un registratore Zoom che ho portato in giro nella tasca del mio cappotto ovunque andassi. Sembra che ci sia un modo diverso di pensare alla terra nell’Islanda orientale. Le case private e la terra selvaggia non erano divise da staccionate e recinti, ma tutto era completamente aperto, principalmente per lasciare libero il passaggio delle pecore. Di conseguenza potevo scegliere una direzione e camminare liberamente per molti chilometri, seguendo i sentieri, cercando ovviamente di essere rispettosa e attenta al territorio e alle persone che ci vivono. Molte delle registrazioni che puoi ascoltare nel disco, sono di me che cammino nei campi, o dell’oceano che s’infrange sulle rocce, o di me che picchietto ossa di uccello o altri oggetti raccolti in giro e portati in studio. Molti dei suoni sono stati pesantemente rielaborati con qualsiasi effetto avessi sul mio computer, mentre altri sono piuttosto grezzi. Ho trascorso molto tempo a rimuginare sulla terra, sull’oceano e su come comprenderli. Waiting Room mi sembra un disco molto liminale, che racconta qualcosa in divenire. Come il tentativo di far nascere qualcosa dal dolore, di far uscire la luce dal buio. Ha una componente onirica molto forte. Ascoltando alcune tracce, ho pensato che sarebbe piaciuto molto a David Lynch (penso spesso a David Lynch ultimamente, da quando se n’è andato). Sei d’accordo con queste mie percez

Kathryn Mohr, che ci ha conquistato con Waiting Room, il suo debutto su The Flenser ma in realtà terzo lavoro sulla lunga distanza, sembra essere ben più di una semplice promessa della folktronica, e se ne sono accorti in tanti. I suoi suoni sono dominati dalla ricerca rumoristica, a metà strada tra il gusto industriale e quello gotico, mentre lo stile lirico è visionario, per certi versi allucinato.
Californiana di nascita, di base a Oakland, ha esordito nel 2020 con As If del 2020, nove brani che lasciavano intravedere un’intensa fascinazione per l’elettronica minimale; nel 2022 è stata la volta Holly, dove, accanto alle perduranti suggestioni ambient, si facevano strada, ancora più esplicitamente che nel primo lavoro, sfumature acustiche dall’attitudine folk. Nel 2024 ha partecipato alla compilation Your Voice is Not Enough, un omaggio ai Low e alla memoria di Mimi Parker, con una bellissima cover di Cut, mentre nel frattempo pubblicava i singoli del suo nuovo lavoro solista.
Waiting Room è un disco difficile e intenso, a tratti claustrofobico, a tratti delicato, che alterna frenesie e sussurri, riff tirati e ballate struggenti: spaventoso e rigenerante come una nuotata nell’Artico.
Chiacchierando con lei, scopriamo che è un’artista molto schiva, che non ama molto parlare di sé, ma che diventa prodiga di aneddoti quando c’è da raccontare la sua musica.
Ho letto che Waiting Room è stato registrato in Islanda, in un ex fabbrica di pesce in scatola. Una location decisamente inusuale. Come mai hai deciso di andare fin lì? E quanto ti ha condizionato, nel dare forma al processo creativo, trovarti in un posto così remoto?
Sono finita lì per caso. Un’amica artista, Suzanne Yeremyan, mi ha raccontato della sua esperienza al Fish Factory Creative Center di Stöðvarfjörður e delle persone che vivono lì. Ho deciso di contattarli e chiedere se avessero una stanza per me, per trascorrerci un mese con altri artisti, e in effetti ce l’avevano, quindi sono entrata nell’ordine di idee che, sì, era qualcosa che avrei fatto. Non ero mai stata in Islanda e sono uscita dagli Stati Uniti veramente poche volte. L’isolamento è stato immenso e liberatorio all’inizio. Alla fine mi sono sentita un po’ frenetica, come se stessi impazzendo. Le mie giornate erano disorganizzate, potevo farne quel che volevo. Ricordo di aver completamente dimenticato che giorno fosse e di aver pensato che fosse un buon segno, che era così che doveva essere.
Il tuo è un disco delicatissimo, fatto di ballate struggenti (Petrified, Take It), di trame melodiche intessute su sussurri (penso alla bellissima Driven), ma ha anche dei momenti più distorti e “sinistri” (Elevator). Quali sono gli stati d’animo che ti hanno maggiormente guidata nella composizione di Waiting Room?
È stato un lungo processo di elaborazione, di riflessione. Gli ingranaggi nella mia testa giravano, ma in un modo che non potevo esprimere a parole. Allontanarmi dalla mia vita quotidiana e da tutte le mie routine mi ha dato una prospettiva molto contrastante, ma anche chiara, su tutto ciò che avevo attraversato negli ultimi anni e sulla mia vita nel suo complesso. Mi sono guardata attraverso la lente di dove mi trovavo, e devo dire che Stöðvarfjörður era una lente del tutto insolita e particolare.
Sebbene sia un disco molto minimale, c’è un’attenzione sorprendente per i pattern rumoristici. Come se oltre ai tuoi sussurri, ad accompagnarti ci fossero “le voci” degli oggetti e dei luoghi che ti circondavano.
Vinny Wood (di Atomic Analog, che vive e lavora a Stöðvarfjörður e aiuta a gestire il centro creativo) mi ha prestato un registratore Zoom che ho portato in giro nella tasca del mio cappotto ovunque andassi. Sembra che ci sia un modo diverso di pensare alla terra nell’Islanda orientale. Le case private e la terra selvaggia non erano divise da staccionate e recinti, ma tutto era completamente aperto, principalmente per lasciare libero il passaggio delle pecore. Di conseguenza potevo scegliere una direzione e camminare liberamente per molti chilometri, seguendo i sentieri, cercando ovviamente di essere rispettosa e attenta al territorio e alle persone che ci vivono. Molte delle registrazioni che puoi ascoltare nel disco, sono di me che cammino nei campi, o dell’oceano che s’infrange sulle rocce, o di me che picchietto ossa di uccello o altri oggetti raccolti in giro e portati in studio. Molti dei suoni sono stati pesantemente rielaborati con qualsiasi effetto avessi sul mio computer, mentre altri sono piuttosto grezzi. Ho trascorso molto tempo a rimuginare sulla terra, sull’oceano e su come comprenderli.
Waiting Room mi sembra un disco molto liminale, che racconta qualcosa in divenire. Come il tentativo di far nascere qualcosa dal dolore, di far uscire la luce dal buio. Ha una componente onirica molto forte. Ascoltando alcune tracce, ho pensato che sarebbe piaciuto molto a David Lynch (penso spesso a David Lynch ultimamente, da quando se n’è andato). Sei d’accordo con queste mie percezioni o è tutto nella mia testa?
Waiting Room sembrava davvero una progressione. Una nascita. Tirare fuori qualcosa da una specie di staticità nulla. L’intera esperienza di essere in quel posto mi ha ricordato molti sogni e luoghi immaginari che ho avuto in mente per la maggior parte della mia vita. È stata un’esperienza strana e irreale, e penso che questo emerga dalla musica. È stato anche un po’ inquietante, a pensarci bene non tanto diverso da come mi sono sentita quando ho visto per la prima volta Eraserhead di David Lynch, uno dei miei film preferiti.
In Elevator parli di arti amputati da un ascensore difettoso. Un approccio narrativo un po’ pulp, che da fan di PJ Harvey, mi ha fatto pensare subito alla storia allucinata di Legs. So che voi musicisti odiate quasi sempre i parallelismi, ma mi chiedevo se e quanto l’artista del Dorset ti abbia influenzata, per questo pezzo e in generale.
Sono una grande fan del lavoro di PJ Harvey. Il suo metodo di creazione dei personaggi nelle sue canzoni, il suo modo di raccontare storie è diverso da qualsiasi altro. Nel 2023, l’anno in cui ho lavorato a Waiting Room, ho trascorso molto tempo ad ascoltare Is This Desire? Il suo disco, Stories from the City, Stories from the Sea, è stato uno dei primi album che mi ha fatto provare una gioia pura e incontaminata. Volevo sperimentare di più con la narrazione nei miei testi in generale, ed Elevator è stato un tentativo mirato di creare una sorta di storia.
Sono in programma date in Europa? Dove porterai il tuo disco nei prossimi mesi?
Ho programmato alcuni concerti negli USA, mentre le date europee sono nelle primissime fasi di pianificazione. Spero di fare molti più tour nei prossimi anni.