30 anni di “Gringos Locos” al Cerro Piergiorgio: il racconto di Maurizio Giordani
Nel 1995 lo scalatore trentino effettuò con Luca Maspes il primo tentativo sulla fantastica muraglia di granito della vetta patagonica. Nei giorni scorsi è tornato sul luogo del delitto. Una storia d’amore a lieto fine L'articolo 30 anni di “Gringos Locos” al Cerro Piergiorgio: il racconto di Maurizio Giordani proviene da Montagna.TV.


«La Patagonia è cambiata completamente rispetto al ’95, anno del nostro primo tentativo». A parlare così è Maurizio Giordani, alpinista e accademico del CAI, grande frequentatore delle Dolomiti e della Patagonia e fautore – insieme a Luca Maspes – di Gringos Locos, la linea individuata e cominciata dai due, a metà anni Novanta, sulla parete ovest del Cerro Piergiorgio e completata infine, lo scorso 3 marzo, da Matteo Della Bordella, Dario Eynard e Mirco Grasso, in seno al progetto CAI Eagle Team. Un’iniziativa fortemente voluta dal Club Alpino Italiano, per formare le nuove leve dell’alpinismo affiancandole a tutor d’eccellenza: percorso che si è concluso proprio con una spedizione nella Patagonia argentina, per tentare la ripetizione e l’apertura di diversi itinerari fra quelle magnifiche vette. Gringos Locos al Cerro Piergiorgio è stata «la conclusione migliore che potevamo aspettarci per quest’avventura – ha dichiarato Matteo Della Bordella, ideatore del progetto – che è stata anzitutto una scommessa: quella di mettere alla prova i giovani partecipanti nel loro battesimo fra le montagne più belle del mondo». Il giovane protagonista di questa straordinaria impresa è Dario Eynard che, a soli 24 anni, ha risolto – accompagnato da Matteo e dal già citato Mirco Grasso – una fra le più estetiche linee ancora insolute che la Patagonia potesse offrire, definita da Luca Maspes, che nel suo primo tentativo del 1995 aveva la stessa età di Dario, «il più bel fallimento di un’intera carriera alpinistica». Maspes e Giordani, infatti, tentarono per anni di venire a capo della via, non riuscendoci sempre per un soffio. A raccontarcelo, in questa intervista, è lo stesso Maurizio Giordani, che per primo la individuò e sognò, già sul finire degli anni Ottanta.
Partiamo dall’inizio, ovvero dalla tua prima esperienza in Patagonia. Com’erano allora quei luoghi?
«Al Cerro Torre andai per la prima volta fra il 1985 e il 1986, quindi parliamo di quando ancora El Chaltén non esisteva, non come lo conosciamo ora perlomeno. Era in previsione la costruzione di un villaggio del genere, se ne intuivano la potenzialità ma, durante quelle prime spedizioni a cui ho partecipato, arrivavamo là e non c’era praticamente nulla, eccezion fatta per la casetta di un gaucho e il baracchino del guardiaparco. Portavamo le corde con i cavalli e poi stavamo là un paio di mesi accampati nelle foreste a scalare. Si trattava di vivere un’avventura totalizzante e in una maniera che era ancora molto pionieristica. Oggi il El Chaltén conta 2.000 abitanti e ha capito come capitalizzare il via vai di alpinisti che ne frequentano gli spazi»
E a livello ambientale?
«Dal punto di vista climatico, nevica molto meno e quindi i ghiacciai si stanno ritirando in modo decisamente veloce, forse molto più velocemente che nelle Alpi. Quando i ghiacciai erano ricchi e pieni di neve ci si avvicinava alle pareti davvero più facilmente. Adesso il ghiacciaio si è ritirato, facendo nascere degli avvallamenti, delle zone più instabili: camminare verso l’attacco delle pareti è diventato così più difficile e pericoloso»
Tanto più se, come nel caso del Cerro Piergiorgio, occorre intraprendere dieci ore di cammino per arrivarci.
«Sì, si tratta di una parete praticamente nascosta. Non è come con il Cerro Torre o il Fitz Roy, che appena arrivi nel parco ce li hai davanti nonostante siano ancora a chilometri e chilometri di distanza. Il Cerro Piergiorgio è completamente nascosto, sul lato opposto, quello che guarda verso lo Hielo Continental. E per arrivarci sì, bisogna camminare almeno dieci ore»
Com’è che allora ti sei appassionato a questa montagna?
«C’è stato lo zampino di Cesarino Fava, che durante le mie prime spedizioni, a metà anni Ottanta, ci accompagnava ancora negli avvicinamenti, in qualità di esperto conoscitore della zona. Un giorno mi disse che, se il Cerro Torre era la montagna più incantevole, la parete più bella era la ovest del Cerro Piergiorgio. Ne parlava come di un muro incredibile, simile ad una diga che sorgeva dal ghiaccio. I suoi racconti mi erano rimasti impressi e dunque, dopo aver fatto il Torre e il Fitz Roy, ho deciso di andare subito a vederla. Era il 1990 e ricordo di essermi avventurato per due giorni da solo. Durante quella prima ricognizione in solitaria, guastata dal maltempo, è nata l’idea di organizzare un vero e proprio progetto per salire quella lavagna meravigliosa. E la prima occasione utile si presentò cinque anni dopo».

Con un allora giovanissimo Luca Maspes.
«Giovanissimo ma già intraprendente: aveva solo 23 anni e fu subito disposto a venire in Patagonia assieme a me. Con noi c’era anche un gruppo di amici che ci accompagnava, insieme ai quali, a fine novembre 1995, arrivammo a El Chaltén, per quello che avevamo preventivato come un mese circa di permanenza. Abbiamo avuto la stupenda fortuna di avere due brevi finestre di bel tempo. Durante la prima finestra, che è durata cinque giorni, siamo andati fino alla base della parete e abbiamo scavato la truna»
Cosa che adesso, per il discorso di prima e dunque in assenza di neve, non è più nemmeno necessaria.
«Già, dal 1995 ad oggi c’è una differenza di centinaia di metri nello spessore del ghiacciaio, una cosa davvero incredibile. Paragonare solamente le fotografie di allora a quelle di adesso è impressionante: in quegli anni si entrava veramente in un nevaio immenso, mentre oggi è rimasta soltanto una voragine di ghiaccio e detriti»
Dopo esservi sistemati alla base della parete, avete dato il via al primo tentativo.
«Quella volta ne abbiamo salita una buona metà. L’estensione della parete è di quasi 1.000 metri e abbiamo adoperato circa 500 metri di corde fisse, lasciandole lì una volta guastatosi il meteo per poter continuare in un secondo tentativo. Siamo riusciti a tornare alla base dopo 18 giorni di brutto tempo e la parete era incrostata di ghiaccio, soprattutto nelle parti alte. Per due giorni abbiamo comunque continuato la salita, arrivando quasi al termine delle difficoltà principali, ovvero verso la fine di quei primi 800 metri di muraglia liscia e verticale, che andavano a risolversi in dei canali e dei diedri molto più abbordabili, per poi sbucare in vetta. Insomma, eravamo arrivati ad un punto molto buono, quando il tempo è cambiato di nuovo. Non riuscivamo a tenere nei piedi le scarpette d’arrampicata per via del freddo e il vento ci impediva fisicamente di proseguire. Siamo dovuti ridiscendere davvero a malincuore perché, con altre tre o quattro ore di bel tempo, saremmo potuti arrivare in cima. Non c’era però modo di fronteggiare quelle condizioni, perché il Cerro Piergiorgio guarda direttamente verso lo Hielo Continental e dunque è sottoposto in modo davvero violento a tutte le intemperie che provengono da ovest, dall’Oceano Pacifico»
Nonostante questo primo tentativo sfortunato, non vi siete persi d’animo.
«Affatto. Abbiamo lasciato le corde in parete e l’anno successivo, all’inizio dell’estate australe del 1996, eravamo ancora lì, alla sua base. Ricordo che abbiamo bivaccato in un crepaccio e quando siamo usciti e abbiamo visto finalmente la parete con il binocolo c’è stata l’amara sorpresa di non rintracciare più le corde fisse, che erano state divelte dal forte vento durante l’inverno. Non avevamo portato con noi il materiale per ricostruire la via da zero, perché convinti di trovare ancora le nostre corde in parete e poter utilizzare quelle. Ritrovarsi all’attacco della via con delle straordinarie giornate di bel tempo ma senza il materiale per affrontarla fu una beffa davvero enorme. Quell’anno dunque abbiamo dovuto rinunciare a Gringos Locos ma siccome avevamo con noi un po’ di chiodi per fare qualcosa in stile alpino, abbiamo deciso di salire a sinistra, lungo lo spigolo del Cerro Piergiorgio. Siamo arrivati comunque sulla stessa cima, nello stesso punto dove arrivava Gringos Locos, ma per una via alternativa che abbiamo chiamato Esperando la cumbre, ovvero “aspettando la cima”. A noi interessava infatti la parete centrale, più diretta ed estetica, ma abbiamo comunque aperto questa nuova via là di fianco, mentre Gringos Locos rimaneva lì, in attesa di essere conclusa».
Negli anni, tu e Luca avete portato avanti altri due tentativi, anche se separatamente.
«Sì, il desiderio di tornare e ritentare non ci ha mai abbandonati. Ma gli anni immediatamente successivi sono passati fra acciacchi fisici e condizioni non sempre propizie. Noi volevamo aprire un itinerario seguendo una certa etica, arrampicando senza utilizzare molto materiale e dunque pochissimi chiodi. Ripercorrerla in quel modo lì, estremamente severo, richiedeva una preparazione fisica che in quel periodo per varie ragioni non siamo riusciti a raggiungere. Luca ha poi provato nel 2006, insieme ad Hervé Barmasse, Yuri Parimbelli e Kurt Astner ma una scarica di sassi ha messo fine alla loro avventura di quell’anno. Nel 2018 sono tornato anche io, sempre con Barmasse, Francesco Favilli e Mirco Grasso, che quest’anno l’ha completata insieme ad Eynard e Della Bordella. Ecco, quell’anno abbiamo raggiunto la base della parete diverse volte ma il tempo era sempre nefasto e non ci ha permesso di scalare».
Arriviamo così al quinto tentativo: un successo in cui speravi anche tu.
«Ovviamente Matteo mi ha chiamato, proponendomi la sua idea di andare avanti con Gringos Locos e chiedendomi se ero d’accordo. Io non solo gli ho risposto di sì, ma era mia intenzione aggregarmi alla cordata, fino all’ultimo. Purtroppo in settembre ho dovuto sottopormi ad un’operazione al piede e dunque le mie chances sono sfumate, però volevo esserci e per questo sono volato in Patagonia con l’Eagle Team. L’aiuto che il CAI sta dando a questa nuova generazione è lodevole: noi allora dovevamo arrangiarci. La cosa che mi ha riempito di orgoglio è poi il modo in cui Matteo, Dario e Mirco hanno rispettato l’idea originaria mia e di Luca, ovvero quella di aprire l’itinerario senza utilizzare troppo materiale, senza “uccidere” la linea. La cosa bella è stata questa: che l’abbiano terminata nello stesso modo in cui noi l’avevamo iniziata, in un ideale passaggio di testimone che mi rende veramente molto felice».
Si ringrazia Luca Maspes per le fotografie scattate durante il primo tentativo, suo e di Giordani, nel 1995.
L'articolo 30 anni di “Gringos Locos” al Cerro Piergiorgio: il racconto di Maurizio Giordani proviene da Montagna.TV.